Rallentata l’ondata di pubblicazioni che riempivano un vuoto dopo anni di oblio, è possibile e necessario ricollocare Guevara fuori dal mito e dalla retorica del “guerrigliero eroico” ma sfortunato. Dissolta la nuvola di pubblicazioni di terza mano, rimangono alcune grandi biografie frutto di un lavoro reale tra cui spicca per completezza quella di Paco Ignacio Taibo II, che ha potuto far fruttare i molti rapporti con stretti collaboratori del Che stabiliti nei suoi lavori precedenti su Santa Clara e sul Congo. D’altra parte sono utili anche le biografie di John Lee Anderson, che ha avuto a disposizione tempo e finanziamenti per ascoltare testimoni preziosi perfino a Mosca, e di Jorge Castaňeda, che ha raccolto parecchio materiale non sempre ben interpretato. Ce ne sono pochissimi altri degni di rispetto, ma comunque sono poche le questioni rimaste da approfondire.
C’è poco da chiarire invece sulle circostanze della morte di Guevara: conta poco se l’ordine di ucciderlo a freddo è partito da Washington o da La Paz. Conveniva a molti impedire che in un processo pubblico potesse spiegare le ragioni della sua scelta. Invece rimangono da chiarire le ragioni della solitudine del Che negli ultimi sei mesi, senza medicine, senza radio, senza modesti walkie talkie per mantenere il contatto con la seconda colonna; senza che si tentasse di far arrivare boliviani pratici della zona per aiutarlo ad uscire da quella regione ostile. Eppure negli stessi anni fu fatto in Venezuela per mettere in salvo alcuni combattenti cubani. E a Cuba c’erano parecchie decine di boliviani ad addestrarsi. Possibile che non se ne trovassero tre in grado di ristabilire i contatti?
Era rimasto casomai in ombra un altro elemento decisivo: perché il Che aveva lasciato Cuba, che egli amava e dove era amatissimo. Eppure si chiarisce facilmente se si riflette sul testo di bilancio della spedizione nel Congo, finalmente pubblicato nel 1994 in tutto il mondo(tranne che a Cuba, che ha dovuto aspettare altri cinque anni). Appare chiaro che a quell’impresa – già avviata da altri – Guevara si era dovuto aggiungere, dopo la critica ai “paesi socialisti” complici dell’imperialismo, divenuta inevitabilmente pubblica perché pronunciata ad Algeri. Era abbastanza esplicita da suscitare l’ira di Mosca, come ammise anche Raúl Castro nell’atto di accusa contro la “microfrazione” di Aníbal Escalante nel 1968. Anche l’impresa di Bolivia non era una iniziativa personale del Che: con lui erano partiti diversi membri del CC del partito comunista cubano. Casomai resta da chiarire come mai in entrambi i casi le informazioni raccolte dai servizi cubani erano risultate poco fondate: per il Congo in ritardo di almeno sei mesi, per la Bolivia del tutto sbagliate.
Oggi è anche chiaro l’itinerario intellettuale del Che. Anche se Guevara non ha contribuito all’arricchimento del marxismo come Lenin, Rosa o Trotskij, è apparso giustamente un gigante rispetto alla maggior parte dei dirigenti comunisti o socialisti della sua epoca, perché ha “riscoperto” alcuni semplici pilastri del marxismo dimenticato o occultato: la necessità dell’indipendenza del partito comunista, il rifiuto della collaborazione interclassista, l’autorganizzazione del proletariato, l’internazionalismo. Era difficile farlo in un epoca in cui invece dei classici del marxismo in tutti i partiti comunisti si studiava sui “brevi corsi” tradotti dal russo, che assicuravano un indottrinamento fideistico. Per questo, senza troppe polemiche, il Che ha “dovuto” lasciare una Cuba che cominciava ad essere assimilata allo stile sovietico su molti terreni, compreso quello della “doppia verità”. Il gruppo dirigente cubano, per sopravvivere in un mondo ostile, e non solo per le pressioni sovietiche, stava imboccando una strada che in pochissimi anni l’avrebbe portato a tacere sugli errori e sui crimini di ogni governo “amico”, a partire da quello del Messico (il massacro di piazza Tlatelolco nel 1968, che fu ignorato dalla stampa cubana, segue di appena un anno la morte del Che). Ma avrebbe taciuto anche sulle illusioni di Salvador Allende sulla evitabilità di un conflitto necessario per difendersi anche con le armi in caso di inasprimento del conflitto.
Il più grande merito del Che è la comprensione tempestiva della crisi strisciante dell’URSS e dei paesi che ne avevano dovuto seguire il modello, in particolare la Cecoslovacchia. Grazie all’apporto di molti consiglieri cechi e anche sovietici, Guevara aveva saputo passare dal primo entusiasmo ingenuo dopo il primo viaggio in quei paesi (quando si autodefinì egli stesso “Alice nel continente delle meraviglie”) a una critica puntuale della crisi sociale ed economica che li minacciava e che sarebbe venuta alla luce in Cecoslovacchia subito dopo dopo la sua morte, trascinando con sé in tutto il mondo molti dei militanti comunisti educati al culto dell’URSS e al fideismo.
Ma le Critiche al manuale di economia dell’Accademia delle scienze dell’URSS, che contenevano le sue riflessioni sull’economia dell’Unione Sovietica e del suo sistema, rimasero inedite per quaranta anni, nonostante il Che le avesse preparate minuziosamente per la pubblicazione durante il suo soggiorno forzato a Praga dopo la fine della spedizione nel Congo. Proprio da alcuni economisti cecoslovacchi come Valtr Komarek era stato aiutato a capire i punti deboli del “modello sovietico” imposto a tutti i paesi “socialisti”, ma in quella città Guevara non poté incontrare nessuno dei suoi amici e compagni locali, perché dovette vivere da clandestino, senza contatti. Secondo lo stesso Fidel la permanenza in quella città “aumentava i rischi” per i suoi progetti, e per questo convinse il Che a tornare, di nuovo clandestinamente, a Cuba. Ma quelle riflessioni critiche sulle strozzature dell’economia sovietica sarebbero state preziose se pubblicate immediatamente, o almeno al momento del crollo dell’URSS; ora, rilette attentamente, servono quasi solo come testimonianza di un itinerario intellettuale. La fine dell’URSS era preannunciata da molti sintomi, ma ancora lontana, e chi aveva creduto che “la chiesa di Mosca fosse eterna come il Vaticano” non vuole ammettere che era possibile prevederne il declino, come il Che fu capace di fare.
Il ritardo nel pubblicare altri scritti già preparati dal Che, come i Pasajes de la guerra revolucionaria, Congo, ha avuto conseguenze gravi già per le successive imprese cubane in Africa, celebrate ancor oggi sorvolando sulle caratteristiche dei regimi che hanno puntellato (Angola, Mozambico ed Etiopia, soprattutto) e su quelle dei dirigenti dei movimenti di liberazione che si erano formati giocando sulla concorrenza tra URSS e Cina, come Laurent Désiré Kabila, su cui il Che aveva espresso un giudizio severissimo non ascoltato, e che diventerà poi trent’anni dopo presidente della Repubblica Democratica del Congo.
La tardiva pubblicazione di gran parte degli inediti ha avuto una scarsa incidenza nel dibattito cubano di oggi. Pesa la inesorabile estinzione per ragioni anagrafiche di alcuni dei tenaci cultori del Che come Fernando Martinez Heredia, tollerati dopo gli anni di silenzio forzato ma a condizione di ricorrere a un linguaggio poco comprensibile ai non addetti ai lavori. Ma si deve anche al fatto che le ricette di Guevara, come quelle di Lenin nel cosiddetto “Testamento politico”, erano già in ritardo sulla trasformazione del paese, che era già in gran parte avvenuta. La sua sconfitta nel dibattito del 1963-64 non era casuale, era il riflesso del consolidamento di una burocrazia sempre più consapevole dei suoi interessi, ben diversi da quelli che pretendeva (e pretende) di rappresentare. Pesa molto oggi anche il nuovo isolamento di Cuba nel continente. Sono già stati sconfitti i governi progressisti in Argentina e soprattutto in Brasile, uno dei paesi chiave per il progetto bolivariano grazie alle sue dimensioni e le sue risorse, e non è facile che altri ne prendano il posto in questa fase. Cuba sostiene il governo del Venezuela, ma le sue difficoltà non sono un’invenzione dei media ostili: Caracas ha dovuto ridimensionare drasticamente le forniture di petrolio. E parecchie nubi si addensano anche sui governi “progressisti” di Ecuador e Bolivia, alle prese con conflitti interni al gruppo dirigente, difficilmente comprensibili anche perché poco limpidi. La conseguenza è comunque che l’isola è sola di fronte agli Stati Uniti, per giunta guidati non più da un Obama (di cui era peraltro lecito dubitare anche all’inizio delle trattative per riprendere i rapporti diplomatici) ma da un bruto imprevedibile come Trump. Tanto più perché i suoi nemici utilizzano largamente l’argomento del comportamento non ineccepibile del governo Maduro, principale anche se ormai insufficiente puntello esterno di Cuba. Lo stesso rapporto privilegiato instaurato tra Cuba e Venezuela (sul piano economico, ma anche politico e ideologico, e con un forte legame personale tra i due fratelli Castro e Chávez) era stato utile e prezioso soprattutto per l’isola, ma a Caracas evocava il rischio di un’assimilazione a Cuba, che spaventava per la sua rigidità ideologica e il permanere delle pesanti difficoltà economiche della popolazione, e forniva argomenti alle opposizioni ostili a una maggiore integrazione nell’ALBA. E di fatto era stata dimenticata e comunque poco ascoltata un’altra delle indicazioni di Guevara, che pensava già cinquant’anni fa a coordinare i movimenti, più che gli Stati di un presunto “campo progressista”…
In ogni caso è abbastanza evidente che effettivamente rispetto a venti o venticinque anni fa, gli anni della sua riscoperta, Guevara è meno conosciuto e quindi meno amato. Ma questo era un dato costante e spiegabile anche nei venti anni immediatamente successivi alla sua morte, quando in gran parte del movimento comunista e delle sinistre gli era stato contrapposto il mito del “realismo” di Salvador Allende anche ad opera di ex rivoluzionari come Régis Debray, mito coltivato senza una riflessione critica anche dopo la tragica fine di quel tentativo riformista. Oggi scontiamo la sparizione di gran parte della sinistra, e anche i danni provocati dall’insensata apologia della nonviolenza ad ogni costo da parte di Bertinotti. Ma il fenomeno è perlomeno europeo.
Non è comunque del tutto negativo che sia sparita dall’immaginario dei giovani europei una lettura mitologica che effettivamente serviva a poco, ma la tragedia è che del Che è stata cancellata di nuovo ogni memoria, e soprattutto non si pubblichino quasi più i suoi scritti. Come ho appena ricordato, negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta era già avvenuto qualcosa di simile, e l’inversione di tendenza c’era stata solo dopo il discorso di Fidel nel ventesimo anniversario della morte del Che, che rifletteva lo sganciamento di Castro e di Cuba dal cosiddetto “socialismo reale” di cui il vecchio líder máximo percepiva la crisi profonda o l’approdo al capitalismo nel caso della Cina. A partire dal crollo del muro di Berlino Castro aveva scelto di polarizzare la sinistra che voleva resistere al crollo, e per questo riattivò sia pur un po’ strumentalmente il culto di Guevara. Oggi non mi sembra che si usi politicamente il Che all’Avana o a Caracas. Ma nonostante tutto spero che Raúl Castro o Maduro non tentino di coprirsi con la sua immagine, mentre fanno affidamento per le loro sorti più sulla Cina e la Russia, che su una ripresa dei movimenti antimperialisti nel continente americano… E Guevara è incompatibile con la concezione prevalente nella burocrazia cubana, che considera “socialisti” quei paesi, non meno della Corea del Nord.
Per questo mi pare si debba distinguere quello che i popoli dell’America Latina possono oggi ricavare dal pensiero del Che dall’uso strumentale fatto della sua icona da parte di sinistre non sempre ineccepibili. Guevara non è stato forse un pensatore marxista originale paragonabile ai grandi dell’inizio del XX secolo, ma in ogni caso un geniale riscopritore del marxismo attraverso la combinazione tra lo studio diretto dei “classici” e le sue esperienze militanti in Guatemala, Messico e Cuba. Può sembrare poco, ma non lo è. Basta confrontare i suoi scritti con quelli degli stessi scrittori meno dogmatici del partito comunista italiano o di quello francese di quegli anni, per non parlare del penosissimo livello dei partiti comunisti latinoamericani, a partire da quello argentino, uruguayano o cileno.
Alla sinistra latinoamericana che sopravvivrà al “campismo” oggi dominante, che evita di riflettere su tutti gli errori propri etichettando ogni opposizione come il prodotto di un colpo di Stato imperialista, potrebbe servire molto il punto di partenza del Che già nei primi anni cubani. Guevara lo aveva ricavato da Stato e rivoluzione e poche altre letture iniziali, ma le conclusioni erano già ben diverse dalle teorizzazioni e soprattutto dalla pratica dei partiti comunisti filosovietici: non è una vera rivoluzione quella che si ferma a metà; l’apparato statale non è neutrale e quello borghese va distrutto; la migliore democrazia è quella del popolo in armi. Sembra poco, ma averlo dimenticato è costato caro.
Riferendosi al Cile degli anni Sessanta nel 1962 il Che diceva: può essere che la sinistra, che lì è più forte, arrivi al governo per via elettorale, come a Cuba non è stato possibile. Ma dopo, che farà? Rinuncerà al suo programma anticapitalistico, perdendo i consensi nella sua base sociale, o lo manterrà? In tal caso dovrà prevedere la reazione dei latifondisti, dei capitalisti, della Chiesa retrograda, e dovrà impugnare le armi per difendersi.
Non fu ascoltato nel Cile, e tanto meno dalla maggior parte dei governi “progressisti” dell’ultimo decennio, che hanno già subito non imprevedibili sconfitte o stanno sopravvivendo grazie alla violenza di Stato che li rende sempre più dipendenti dai militari e sempre più lontani dal progetto originario. Sarebbe bene che cominciassero a leggere o rileggere il Che, e soprattutto a fare dei bilanci del proprio operato negli anni dell’abbondanza, dovuti al rialzo dei prezzi di petrolio e altre materie prime. Ma non sembra che Lula o Maduro o la Kirchner abbiano mai pensato troppo a Guevara, anche se nelle manifestazioni i loro seguaci ne portavano spesso il ritratto. E l’unico leader “progressista” che ha fatto personalmente riferimento al Che, Evo Morales, che lo ha ricordato recandosi negli anniversari sul luogo della sua morte, non sembra che abbia tratto molte lezioni dalla sua esperienza, e deve fare i conti non solo con settori capitalistici ostili, ma anche con un esercito che rivendica ogni anno come una grande vittoria quello che fu l’assassinio di pochi guerriglieri malconci e quasi inermi, perché lasciati soli da mesi senza rifornimenti perfino dei medicinali indispensabili.
Per anni, il consenso degli strati più poveri della popolazione ottenuto facilmente dai governi “progressisti” di vari paesi con una politica di elargizioni di modesti bonos, aveva dato l’illusione di una irreversibilità delle conquiste e aveva fatto dimenticare gli avvertimenti di Guevara. Oggi è indispensabile prepararsi a un contrattacco di quelle forze borghesi i cui interessi di fondo non erano stati toccati, ma che aspettavano l’occasione per recuperare totale libertà d’azione. Dopo la sconfitta della Kirchner, la destituzione quasi indolore di Dilma Rousseff, le pesanti difficoltà del governo Maduro in Venezuela e le prevedibili ripercussioni di tutto ciò su una Cuba già in gravi difficoltà non solo per l’elezione di Trump, rendono urgente in tutto il continente il recupero del pensiero di Guevara, una sorta di traduzione latinoamericana dell’esperienza dell’Ottobre russo.
In conclusione, vorrei ricordare che un’altra “riscoperta” di Guevara che allora sbalordì il mondo e fu alla base del suo fascino tra i giovani, è che la verità è rivoluzionaria, che bisogna dire quel che si pensa e fare quel che si dice. Eppure non era così nuovo, era convinzione comune alla generazione di Lenin, di Trotskij, di Rosa, del nostro Gramsci. Averlo riscoperto può sembrare poco ma era tantissimo allora, e lo è a maggior ragione oggi per la sinistra smarrita e afona in tutto il mondo. E sarebbe essenziale per quella latinoamericana, che alle prime difficoltà si è trincerata dietro le teorie del complotto, sfuggendo al compito di una diagnosi corretta delle cause dell’attuale crisi, e quindi alla possibilità di identificare i rimedi.
Basterebbe questo per rendere ancor oggi indispensabile Ernesto Che Guevara.
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