Migranti e lavoro. Due proposte di Cesare Molinari

 

Quanti, per istintiva solidarietà o per calcolo, hanno cercato di evidenziare il lato positivo dell’immigrazione, si sono per lo più concentrati su due temi: in primo luogo gli immigrati hanno coperto settori della produzione e dei servizi cui gli italiani tendono a sottrarsi o perché particolarmente faticosi e mal retribuiti o perché non corrispondenti al loro livello di istruzione; in secondo luogo i demografi hanno rilevato che solo l’immigrazione riesce a coprire, e parzialmente, il precipitoso crollo della natalità: poco più di un figlio per donna, circa la metà di quanto sarebbe necessario per mantenere almeno inalterato il rimpiazzo delle generazioni. A ciò i nemici dell’immigrazione rispondono che invece bisognerebbe favorire in tutti i modi la maternità autoctona, quasi rispolverando l’invito mussoliniano a fare tanti figli perché il numero è potenza, o almeno ricchezza – cosa oggigiorno molto poco credibile. Mentre dimenticano un’altra questione, molto più impellente: gli immigrati sono quasi tutti giovani e con ciò possono rimettere in equilibrio il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati, indispensabile per garantire appunto le pensioni. Ed è ben vero che già oggi una buona percentuale delle pensioni proviene dai contributi versati da lavoratori immigrati, ma è anche vero che questi calcoli sembrano più o meno aleatori, legati come sono a molte di variabili spesso poco prevedibili. La prima delle quali va individuata nella misura in cui sarà possibile garantire se non la piena occupazione, almeno un livello di disoccupazione non molto superiore al 5% che viene considerata non solo fisiologica, ma addirittura utile al buon funzionamento del capitalismo: la piena occupazione spinge in alto il livello dei salari.

Fino a poco tempo fa la normativa non prevedeva che fosse possibile assumere migranti non regolarizzati, se non grazie a delle borse lavoro, per lo più finanziate da privati e, comunque, per definizione precarie.

Sono indotto a credere che la possibile soluzione del problema non stia nella ‘accoglienza’, cioè in una forma di ospitalità, più o meno benevola, più o meno civile, più o meno carceraria, ma nella possibilità di trovare un lavoro, se non stabile almeno continuativo, anche per i nuovi arrivati. L’ozio, come dice il proverbio, è sicuramente padre dei vizi, ma, per i più poveri, anche della delinquenza.

Adesso sembra che le cose si stiano faticosamente muovendo.

In un’intervista rilasciata al “Corriere fiorentino” (inserto fiorentino del “Corriere della Sera”), il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, lanciò una provocazione poi smentita, ma che almeno l’autore dell’intervista (o forse piuttosto la redazione) credette di aver letto nel pensiero dell’intervistato, titolando “regolarizziamoli tutti”. Regolarizzare tutti gli immigrati o i richiedenti asilo sarebbe certamente un gesto audace, che susciterebbe infinite polemiche anche fra i moderati, ma che avrebbe certamente il vantaggio di aprire le porte del lavoro anche ai nuovi venuti – appunto i richiedenti asilo – senza peraltro offrire nessuna certezza di sostanziose assunzioni.

Ma il punto che qui interessa è che il provvedimento dovrebbe permettere ai sindaci di impiegare i migranti per eseguire “a titolo volontario e gratuito” lavori di pubblica utilità – come del resto alcuni sindaci, tra cui quelli di Riace e di Ventotene, avevano già cominciato a fare, trovando qualche riscontro anche nell’opinione pubblica. Ma è poca cosa: evidentemente questi richiedenti asilo potranno contribuire a tener pulita la città o a tagliare l’erba dei parchi, o poco più.

Bisogna partire da un dato economico: attualmente i richiedenti asilo ricevono circa 35 euro al giorno, cifra che in verità va quasi integralmente alle organizzazioni o alle cooperative che si occupano di ospitarli, ed è ben noto che due geni del male come Carminati e Buzzi constatavano che l’affare migranti rende più di quello della droga. Ora, io credo che, almeno in questo caso, bisognerebbe poter superare la logica degli appalti, su cui sembra fondarsi tanta parte del capitalismo moderno, per tornare all’intervento diretto delle istituzioni, seguendo le indicazioni del buon vecchio Keynes, che il neo-liberismo selvaggio pretende di mettere in soffitta.

Perché c’è un’altra premessa da fare: anche senza parlare di terremoti, tutti sanno che il territorio italiano si sta disfacendo, con enormi costi per riparare i danni più gravi, naturalmente attraverso appalti. Allora, non sarà pensabile che almeno i richiedenti asilo possano essere impiegati nella manutenzione di quelle aree a più immediato rischio idrogeologico, su base pur sempre burocraticamente volontaria, ma sostanzialmente proprio in quanto ricevono, oggi in maniera indiretta, il sussidio di 35 euro al giorno (pari a 1050 euro al mese, stipendio certo misero, ma non inferiore a molte pensioni minime)?

Ma c’è anche un altro fattore che dovrebbe essere preso in considerazione: in Italia ci sono moltissimi borghi e villaggi sostanzialmente disabitati e, per ciò stesso, a rischio di distruzione. Recentemente c’è stato un incontro dei rappresentanti di questi borghi, durante il quale sono state avanzate proposte per favorirne la ripopolazione, quasi sempre trattandosi di iniziative di carattere culturale, atte, secondo i proponenti, a richiamare il turismo, toccasana economico di tutti i mali della nazione. Anche qui, c’è da chiedersi se non sarebbe invece il caso di stabilire in queste località abbandonate gruppi di migranti addetti alla manutenzione del territorio, la cui presenza potrebbe favorire lo svilupparsi di un modesto indotto che permetterebbe di evitare il formarsi di enclaves esclusivamente straniere (anche se bisognerebbe ricordare che fin dal basso medioevo esiste in Sicilia un paese come Piana degli Albanesi, dove si continua a parlare appunto l’albanese). Probabilmente ci sarebbe da vincere la resistenza dei pochi sopravvissuti, forse gelosi della loro “identità”, parola “avvelenata”, come la ha definita Francesco Remotti – che copre un sostanziale razzismo, come ha ulteriormente chiarito Amartya Sen.

Ovviamente le cose non sono così semplici, né così a buon mercato: ci dovrà essere una lunga e difficile progettazione; i gruppi di richiedenti asilo dovranno essere non solo istruiti, ma anche guidati da tecnici e ingegneri; in qualche modo in quei borghi e villaggi dovrà essere ricostruita una struttura amministrativa e di sorveglianza. C’è infine il rischio che quel lavoro volontario venga, nel tempo, percepito come lavoro forzato. Tuttavia le spese complessive saranno, nel lungo periodo, di gran lunga inferiori a quelle necessarie per far fronte al succedersi delle emergenze. La differenza è che, in questo caso, i soldi dovranno essere certo non tanto pochi, ma soprattutto maledetti e subito

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