Per quanto definita da tutti i vocabolari e abbondantemente illustrata da innumerevoli articoli a carattere divulgativo, ancora oggi molte persone (forse la maggioranza) non hanno affatto chiara la differenza tra “tassa” e “imposta”, che invece sono due concetti fra loro quasi oppositivi. Anzi, quasi tutti – anche coloro che la differenza dovrebbero averla ben chiara – usano il termine “tassa”, solitamente al plurale: “le tasse”, anche riferendosi alle imposte, contribuendo così a creare una grande confusione.
Una confusione, in verità, certamente non nuova. E sarebbe anche interessante, o per lo meno divertente tracciare la storia anche etimologica dei due termini. Ma in questa sede basterà ricordare che “tassa” deriva dal greco “ταξω” che significa “mettere ordine”, attraverso il latino “taxo”, che però contiene l‘idea di “determinare, fissare”; mentre “imposta”, da “imponere” (imporre) ha già una connotazione di sopruso. Non so dire quando precisamente il termine “imposta” sia entrato nell’uso, anche se lo si ritrova già nella Nova Cronica di Giovanni Villani, il quale non distingue i due concetti, parlando di “una imposta per capo d’uomo com’era tassato” e di una “taglia (= tassa?), ovvero imposta di moneta”. Del resto l’inglese non conosce la differenza, usando “tax” in entrambi i casi, tanto che il famoso motto dei ribelli americani “no taxation without representation”, si riferisce proprio a un’ “imposta” – la famosa ‘tassa’ sul tè – anche se di carattere indiretto. Il tedesco invece distingue fra “Gebühr” (tassa) e “Steuer” (imposta).
Dunque, tanto per richiamare tale importante distinzione, ricordo che si definiscono “imposte” tutti quei prelievi, o tributi, che un’entità statale appunto impone ai suoi sudditi per il proprio mantenimento e funzionamento, tanto che si potrebbe dire che uno stato minimamente complesso non potrebbe esistere senza le imposte – anche se poi, per lunghi secoli esse furono utilizzate principalmente per le guerre, certo non solo difensive, o per il lusso delle classi privilegiate e dei regnanti: basti ricordare Versailles e la splendida corte del Re Sole, comprendendo anche il manifestarsi di quello splendore, cioè di quel potere, a scopi che oggi potremmo definire di propaganda in qualche modo truccati da spettacolo o festa offerti al piacere della popolazione, come i magnifici ingressi trionfali di un principe.
Pagare le imposte è stato spesso, nel corso della storia, considerato un’umiliazione, proprio perché significava sottomettersi a un’imposizione. Ragion per cui i nobili ne erano il più delle volte esentati, spesso sostituendo il versamento di denaro con dei servizi diretti, come, nel Medio Evo, fornire al re contingenti di truppe oppure ospitare la corte nei propri castelli, così come fa Macbeth accogliendo re Duncan (non proprio con l’intenzione di rendergli servizio); ma ci sono memorie del genere anche per quanto riguarda la grande Elisabetta. L’escamotage è peraltro molto antico: nell’Atene del V e del IV secolo i cittadini più ricchi per non pagare le imposte si assumevano, più o meno di buon grado, delle liturgie come armare una trireme o fare il corago (che vuol dire “produttore”, non “regista”) di una tetralogia tragica. Ai nostri giorni, pagare le imposte non è più considerato umiliante, ma soltanto stupido: chi è furbo evade.
Le imposte sono di tipi diversi. La distinzione più immediatamente evidente è quella fra imposte dirette e imposte indirette (queste ultime essendo, con qualche ragione, più immediatamente percepite come tasse) e possono colpire indiscriminatamente tutta la cittadinanza o soltanto una parte di essa. E se, da una parte, le persone tassate (soggetti passivi) cercavano in tutti i modi di sottrarsi, dall’altro le autorità (soggetti attivi) hanno dispiegato una non minore fantasia nell’individuare le categorie che potevano essere colpite per qualche ragione. Così nell’antica Roma furono tassate le prostitute, il cui reddito venne preventivamente calcolato in base al numero delle prestazioni che ciascuna avrebbe potuto effettuare, e che fu presuntivamente fissato in cinquanta! Così, nella Firenze del Trecento – racconta di nuovo Giovanni Villani – si istituì una tassa sul chiericato, in qualche modo non lontana da quella sul celibato inventata dal fascismo, come molti ricorderanno, nel 1927. In tutti questi casi si tratta di imposte che hanno ovviamente una finalità economica, ma che venivano giustificate con motivazioni di ordine sociologico o addirittura ideologico: chierici celibi e puttane sono categorie di persone indegne di far parte del consorzio civile, e perciò vi sono tollerate solo a pagamento.
Ma veniamo alle imposte indirette, il capitolo più complesso e spesso più doloroso. L’imposta ‘indiretta’ non colpisce il contribuente in quanto tale, ma solo in quanto produttore di un bene o di un servizio, ma alla fine, sempre, come acquirente, il produttore diventando, di fatto, un esattore (ed è questa la maggiore difficoltà che comporta la riscossione di tali imposte).
In tempi moderni l’imposta indiretta comporta aliquote diverse, che vanno dal 2% al 20% a seconda che si tratti di beni di prima necessità o puramente voluttuari e dovrebbe colpire tutti i passaggi che comportano un accrescimento del valore del bene prodotto: IVA, Imposta sul Valore Aggiunto. Ma è chiaro che il gettito maggiore non può che venire dai beni di prima necessità, in quanto, per definizione, consumati da tutta la popolazione: su questo ineccepibile ragionamento contabile venne promulgata, nel 1869, la famosissima imposta subito definita “tassa sul macinato”. Ma fu solo dieci anni più tardi che Bernardino Grimaldi, Ministro dell’Economia, ebbe il coraggio, o il cinismo, di rendere esplicito il significato economico di quel calcolo: “Se mettiamo anche una forte tassa sui gioielli che comprano i ricchi, questi sono pochi e il totale sarebbe misero, ma se imponiamo una piccola tassa a chi compra solo pane, cioè ai poveri, che però sono milioni e milioni, il totale incassato forma centinaia e centinaia di milioni”.
Le tasse sono cosa del tutto diversa: in sintesi, e semplificando, si può dire che esse sono una forma di pagamento che il cittadino versa allo stato in cambio di un servizio o di una autorizzazione resigli da un ente pubblico – ed è per questo che il soggetto attivo è spesso un ente locale o una società che ne dipende. Con qualche forzatura si può dire che il biglietto del tram o dell’autobus urbani sono una specie di tassa di trasporto, ed è proprio per questo che, da una parte, alcune categorie di utenti (dagli invalidi agli studenti) possono fruirne a prezzo ridotto, mentre, dall’altra, non pochi la evadono riuscendo a non esibire il biglietto, forse considerando di avere il diritto di spostarsi velocemente da un punto all’altro della loro città – pure, a nessuno verrebbe in mente di chiedere a un tassista, che gli rende in forma privata lo stesso servizio, di fargli uno sconto o di farlo viaggiare gratuitamente. Più chiaro è il caso del ‘ticket’ che paghiamo per le analisi mediche, per l’acquisto di certi medicinali e di certe cure, ma che viene sentito come iniquo in quanto lesivo di un diritto fondamentale come il diritto alla salute – ed è probabilmente per questo che tali ticket sono stati graduati, in base al reddito (come fossero delle aliquote delle imposte dirette) o in base allo stato di salute dell’utente: le medicine per le malattie croniche sono gratuite per tutti.
Diverso, ma ancora più evidente è il caso di certe autorizzazioni, come quella definita “occupazione di spazio pubblico”: un ristorante o un bar desiderano offrire ai loro clienti la possibilità di pranzare all’aperto, allargando così anche il numero dei tavoli e quindi dei clienti stessi, e il Comune li autorizza a farlo, sottraendo lo stesso spazio alla libera circolazione dei cittadini (e mi si permetta di ricordare come nella mia Venezia una buona metà della piazza di San Marco sia occupata dai tavolini dei grandi e famosi caffè come il Florian e il Quadri). In verità il Comune non fa altro che affittare quello spazio all’esercente, che paga una cifra diversa a seconda non tanto della quantità dello spazio occupato, quanto della sua qualità o, se possiamo dire, della sua nobiltà.
Un terzo, ma più intrigante esempio va individuato nella tassa di circolazione degli autoveicoli, anche questa percepita da certuni come iniqua in quanto lesiva del diritto alla velocità. In questo caso il soggetto attivo sono le Regioni, anche se la tassa ci autorizza ad andare in giro dappertutto con un ingombro alquanto superiore a quello di un semplice pedone, per non parlare del danno ambientale. Ma in verità le cose non sono così semplici perché, dal 2009, la tassa di circolazione è diventata tassa di possesso, vale a dire una vera e propria imposta, ciò che giustifica quanti reclamano l’abolizione dell’iniquo balzello, del tutto simile a quello, fortunatamente abolito, sulla prima casa: che diamine! gli italiani in macchina non circolano: ci vivono.
Storicamente, nel corso dei secoli, le tasse, e soprattutto quelle intese come autorizzazioni, furono innumerevoli, certamente molto più numerose delle vere imposte, andando a colpire quasi tutte le attività economiche più povere, dall’attingere acqua da fonti e sorgenti al diritto di pascolare le greggi o di falciare i campi fino a quello di raccogliere le spighe dopo la mietitura, forse pagato ancora dalle mitiche spigolatrici di Sapri. Ma le tasse più universalmente diffuse, e da cui ci si attendevano gli introiti più consistenti, furono i dazi, che si pagavano al momento in cui una merce (ma talvolta anche una persona) veniva autorizzata ad attraversare uno degli innumerevoli confini che dividevano non soltanto gli stati, ma anche territori diversamente qualificati dal punto di vista economico o politico. In Italia essi furono lentamente aboliti solo dopo la proclamazione del regno, mentre nel mondo la soppressione dei dazi ha segnato l’inizio della globalizzazione, con la trionfale affermazione della libertà di circolazione delle merci, ma non degli uomini.
In Italia le imposte dirette (le più importanti delle quali sono l’imposta sul reddito delle persone fisiche, o IRPEF, e quella sul reddito delle società, o IRES, coprono circa il 60% delle entrate erariali dello stato – ma non delle spese, il disavanzo essendo finanziato in deficit, vale a dire attraverso debiti che lo stato contrae e che comportano evidentemente il costo degli interessi.
L’imposta più invisa e di frequente contestata è probabilmente quella sulle persone fisiche (IRPEF) in quanto colpisce direttamente tutti i cittadini, rendendoli ‘contribuenti’. Tuttavia bisogna ammettere che l’IRPEF – nel rispetto dell’art. 53 della costituzione – ha carattere abbastanza decisamente progressivo: aldilà di una piccola area di esenzione, le aliquote vanno da un minimo del 23 a un massimo del 43% (cui va aggiunta una modesta addizionale regionale). Il che significa, ovviamente, ma molti sembrano non averlo ancora capito, che il contribuente il cui reddito supera i 75.000 euro dell’aliquota massima non paga il 43% sull’intero reddito, ma soltanto sulla quota che va oltre quella cifra.
Gli oppositori di questa tassazione progressiva, argomentano che un’aliquota massima così alta finisce con il disincentivare la spinta a produrre reddito e con il deprimere l’economia e quindi, paradossalmente, lo stesso gettito fiscale, come dimostra la famosa “curva di Laffer”. Ma Arthur Laffer (l’economista che suggerì a Reagan di diminuire drasticamente le imposte) forse aveva dimenticato che Roosevelt aveva portato l’aliquota massima dell’imposta diretta al 98%, riuscendo a risollevare l’economia americana dopo la grande depressione del 1929.
Comunque sia di ciò, quanti ritengono eccessiva l’imposta sul reddito generata dall’attuale sistema per aliquote, propongono ora l’introduzione di una flat tax (tassa piatta), che, fatta salva l’area di esenzione, comporterebbe un’aliquota unica del 23%, sostenendo che la progressività costituzionale è comunque garantita dal fatto stesso che l’imposta ha carattere proporzionale, ragion per cui chi ha un reddito uguale a 100 pagherà 23, mentre chi ha un reddito uguale a 1000 pagherà 230. Ed è facile immaginare che la prossima campagna elettorale metterà al centro questo tema che sembra di carattere squisitamente tecnico, ma che invece ha una forte valenza politica, per non dire ideologica.
Poiché tutti i maggiori schieramenti politici sembrano aver messo al centro del loro programma la diminuzione delle tasse, la proposta della flat tax ha quanto meno il merito di chiarire che il vero problema non è ridurre la pressione fiscale, ma come ripartirla. E infatti, se bisogna riconoscere che le imposte, e particolarmente quelle sul reddito delle persone e delle imprese, possono essere considerate eccessive e che, per conseguenza, possono avere effetti depressivi sul complesso dell’economia, dall’altra bisognerà tenere conto di alcune cose che mi sembrano di una certa importanza.
La prima riguarda certamente l’evasione fiscale, da quella minuscola dell’idraulico che non fa pagare l’IVA al cliente per risparmiare, lui, di aumentare il proprio reddito imponibile, fino a quella macroscopica dei finanzieri che non producono vera ricchezza, o a quella di certi professionisti come gli artisti, gli attori e i campioni sportivi, che – a differenza di personaggi come De Benedetti, il quale diceva serenamente “il mio mestiere è di fare soldi” – dovrebbero trovare nella vita gratificazioni di ben altro livello. Costoro andrebbero trattati nel modo più severo: ricordiamo che negli Stati Uniti l’evasore fiscale può finire in galera e che Al Capone fu imprigionato soltanto come evasore fiscale. Inoltre, l’evasione comporta oggi anche l’esportazione di capitali in quei paradisi fiscali contro i quali, un tempo, l’impero inglese avrebbe certamente portato la minaccia delle sue cannoniere, mentre oggi il Regno Unito ne possiede alcuni, quasi esibendoli nel bel mezzo della Manica.
La seconda consiste in questo che se noi paghiamo, per certi già ricordati importanti servizi, come i trasporti o le cure mediche, tasse di livello ampiamente inferiore al loro costo reale, ciò può avvenire soltanto perché la differenza viene coperta dalla così detta ‘fiscalità generale’, ossia, sostanzialmente, dalle imposte. E questo risponde in maniera diretta all’art. 2 della Costituzione, che “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Ma infine, e veramente last but not least, bisogna rendersi conto che le imposte, come anche almeno certe tasse, sono il primo e ineludibile strumento per ridurre quelle diseguaglianze sociali che, invece, stanno aumentando tanto da mettere a rischio la stessa vita democratica. Al punto che molti stanno cominciando a chiedersi se è vero che la democrazia sia realmente, pur con tutte le sue imperfezioni, il migliore dei governi possibili.
(Tratto dal sito: www.cesare23.it.)
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