Intorno alla metà del quarto secolo a.C., l’oratore Licurgo, in quel momento investito di ampi poteri in un ruolo che potremmo paragonare a quello di un nostro ministro dell’economia, ma soprattutto grazie al proprio prestigio morale e politico, fece approvare un provvedimento che prevedeva da un lato di collocare nel teatro di Dioniso (da poco ricostruito in pietra) le statue in bronzo dei tre grandi tragici del quinto secolo – Eschilo Sofocle Euripide – ma dall’altro anche di depositare negli archivi della città il testo autentico delle loro opere al fine di impedire che gli attori vi introducessero aggiunte o varianti. La storia è raccontata dallo pseudo-Plutarco, che scrive nel primo secolo d.C, in tono vagamente mitico, ma l’importanza dell’evento non è sfuggita: in buona sostanza possiamo dire che venne istituito un corpus di autori ‘classici’, i cui testi erano stati fissati in un’edizione definitiva (un’edizione critica?!), che doveva essere eseguita nella sua integralità – senza, ovviamente, che si potesse tener conto di quanto la recitazione stessa avrebbe potuto modificare il senso, se non la lettera, del testo drammatico (cosa di cui invece sarà ben cosciente Tommaso Salvini). Ma il problema rimane comunque di ordine squisitamente teatrale, quasi sottintendendo che l’unico modo di pubblicazione e di trasmissione di quei sacri testi potesse essere l’esecuzione scenica, senza considerare la possibilità che essi venissero trascritti e letti, pure in un momento in cui il libro cominciava ad avere una certa diffusione, come testimoniato in primo luogo da Aristofane.
Quasi duemila anni più tardi, nel 1623, due attori della compagnia di Shakespeare, John Heminge e Henry Condell, pubblicarono in-folio tutte le opere drammatiche del bardo – non, si badi, quelle puramente poetiche, poemetti e sonetti. Si trattava anche in questo caso di stabilire il testo, ne varietur, di un autore considerato classico in prospettiva, forse ad imitazione (o in risposta) del tentativo di Ben Jonson, che tale si era auto-proclamato pubblicando in-folio le proprie opere (più tardi tale onore sarebbe toccato anche a Beaumont e Fletcher; (vedi Guarino 2010, 104). Ma le motivazioni erano del tutto diverse, anzi, in un certo senso opposte a quelle dell’iniziativa di Licurgo. Scrivono infatti Heminge e Condell nell’indirizzo ai lettori: sarebbe stato bene che l’autore avesse potuto pubblicare lui stesso i suoi scritti, ma, poiché il destino ha disposto diversamente, diversamente “vi preghiamo di non invidiare ai suoi amici il compito della loro cura e fatica, di averli raccolti e pubblicati, cioè di averli pubblicati come erano prima che voi foste ingannati da diverse copie rubate e clandestine, storpiate e deformate dalle frodi e dai furti di ingiuriosi impostori, che le hanno esposte: anche quelle sono ora offerte ai vostri occhi curate e perfette nelle loro membra; e tutto il resto completo nei loro numeri, come egli li ha concepiti”.
Non si tratta più, evidentemente, di proteggere il testo contro gli arbitri degli attori, che anzi, all’epoca, nessuno pensava che esso dovesse, o addirittura potesse essere rappresentato nella sua integrità, come dimostrato dall’Amleto, le cui dimensioni escludevano tale possibilità: solo nei primi anni del Novecento l’Old Vic ne proporrà un’esecuzione completa, ironicamente definita ‘eternity Hamlet’ (vedi Lunari 1959, 70). Ora il problema è di ordine squisitamente editoriale: si tratta di restaurare un testo autentico, uscito dalla penna dell’autore contro quelli pubblicati abusivamente e talvolta derivati da registrazioni eseguite nel corso degli spettacoli o dalla memoria di attori infedeli – i famosi bad quartos. Un testo che non viene più proposto per essere rappresentato, ma che si rivolge ad una ‘great variety of readers’ che dovranno, appunto, leggerlo – il ‘teatro’, ossia la drammaturgia, è diventato semplicemente ‘letteratura’ (come del resto aveva intuito Aristotele).
Quindi, anche i drammi, come tutte le altre opere letterarie, dai sonetti ai romanzi, potevano essere letti ad alta voce davanti a un pubblico più o meno ampio, più o meno familiare: anche le signore potevano offrirne una lettura agli ospiti dei loro salotti, così come vi offrivano le non sempre gradite esibizioni canore o musicali delle loro figliole. Ma ci sono delle particolarità, dovute non solo al fatto che i drammi, essendo costituiti da scambi di battute fra diversi personaggi, richiedevano una maggiore abilità nel variare le tonalità e l’espressività della voce (in cui peraltro erano maestri i cantastorie o cuntastorie napoletani – i rinaldi –e soprattutto quelli siciliani; (vedi Di Palma 1991, 41), ma anche a questo che, se una lettura pubblica poteva essere concepita come una prima forma di pubblicazione e come verifica di una possibile accoglienza, nel caso di un dramma essa poteva anche servire per offrirlo all’acquisto da parte di un teatro o di una compagnia. Certo, Vittorio Alfieri concepì le letture delle sue tragedie eseguite nei salotti della contessa d’Albany e di altre dame soltanto allo scopo di saggiare le reazioni di un piccolo ed eletto pubblico ed eventualmente di ascoltarne i commenti in vista di possibili modifiche da apportare al testo. E questa fu anche l’intenzione di Victor Hugo allorché, in seguito alle discussioni provocate dalla pubblicazione del Cromwell e della relativa preface, convocò una riunione del fior fiore dell’intellettualità parigina per leggervi Marion Delorme. Ma il caso volle che a quella riunione intervenisse anche il barone Taylor, all’epoca amministratore del Théâtre Français, il quale costrinse Hugo a vendergli subito il dramma (Adèle Hugo 1985, 450). Per conseguenza, la lettura che Hugo fece davanti alla compagnia non ebbe più lo scopo di far approvare il testo da parte degli attori, esautorati da Taylor: si passò direttamente alla distribuzione dei ruoli. La lettura divenne così particolarmente delicata in quanto l’autore-lettore avrebbe dovuto non solo accennare i ritmi, le enfasi e i toni che gli attori erano implicitamente invitati a trasferire nei loro personaggi, ma anche a farlo tenendo conto delle qualità vocali dei singoli interpreti. Non senza cercar di cogliere le loro più o meno sotterranee reazioni.
Dunque, una lettura di tipo molto particolare, in qualche modo vicina alla lezione (e non sarebbe privo di interesse verificare quante e quali sfumature i due termini, procedendo dal latino lectio o scostandosene etimologicamente, abbiano assunto nelle diverse lingue europee). Ma una ‘lezione’ nella quale gli allievi avrebbero dovuto imparare non solo, o non tanto, dal contenuto di informazione e di pensiero del testo recitato, quanto piuttosto dall’andamento vocale, e probabilmente solo in piccola parte mimico, della recitazione stessa – dove l’idea di ‘recitare’ mi pare in questo caso più appropriata di quella di ‘leggere’. Del resto i due termini non sono certamente incompatibili, che anzi il leggere recitando, cioè conferendo al testo espressività e ritmo, è considerato la norma della lettura ad alta voce (diversamente da quanto succede in quella endofasica), sebbene i frequenti inviti a variare il tono e l’intensità della voce, adeguandoli al soggetto ed eventualmente al personaggio e magari anche all’uditorio, inducano a pensare che la tentazione della monotonia sia sempre stata in agguato. Invece, il lettore deve essere un interprete, capace non solo di esaltare il contenuto psicologico e sentimentale, come logico e morale, del suo testo, ma anche di lasciar trasparire le proprie emozioni e il proprio giudizio (vedi Trelease 2013, 107): un attore. Del resto, ancora oggi degli attori vengono invitati a leggere testi letterari nel contesto di occasioni diverse, per esempio di una conferenza, nella quale il conferenziere desidera introdurre una citazione, alla quale non si sente in grado di dare tutta la pregnanza emotiva che vorrebbe: solo un vero attore è capace di farlo. E non mancano neppure ‘spettacoli’ di pura lettura, che possono articolarsi in una ‘serie’, allo scopo di esaurire l’esecuzione vocale di un testo di grandi dimensioni, come un romanzo: una esecuzione ‘dal vivo’ che, registrata, potrebbe diventare un audiolibro (vedi Molinari 2015, p. 180).
Neppure leggere e recitare a memoria sono in verità concetti fra loro radicalmente oppositivi. Che la scrittura sia nata come aide-mémoire è opinione condivisa (vedi Glasser 2000, 69 ss.), anche se sarebbe più appropriato parlare di esteriorizzazione della memoria, sulle orme di Platone. Recentemente un noto studioso di neuroscienze, Rodrigo Quian Quiroga, ha sostenuto che il cervello umano è molto poco adatto a ricordare. Ed è forse proprio per questo che, da una parte, uomini o personaggi dotati di una memoria eccezionale, da Pico della Mirandola a Julien Sorel, sono diventati quasi mitici; e che, dall’altra, il tema della memoria e della mnemotecnica ha talmente appassionato, a partire da Quintiliano e Cicerone, fino a Giulio Camillo, con il quale il tema raggiunge la sua più impressionante sistemazione, proprio in coincidenza con lo sviluppo della stampa (vedi Tamburini, 2015). Ma, dicevo, leggere ad alta voce e recitare a memoria non sono concetti incompatibili: in entrambi i casi il recitante comunica un testo letterario, appreso dalla tradizione orale o da uno scritto, che in epoca relativamente recente può essere un libro, sul quale, spesso, apporta molte varianti personali. Ci sono addirittura dei casi in cui il cantastorie recita tenendo in mano il suo libro dei Reali di Francia (come faceva il maestro Cosimo di cui parla Pitrè), ciò che non gli impediva per nulla di gesticolare e muoversi sul suo piccolo palco: consultava il libro quando gli era necessario, come se fosse un suggeritore.
L’opposizione più significativa va cercata in quella fra recitare a memoria e recitare all’improvviso, e questo proprio in ragione della loro sostanziale uniformità, o, più propriamente, della loro appartenenza alla stessa categoria di azioni: una pera può essere confrontata con una mela, o anche con un’anguria, ma non con un armadio. Non è il caso di affrontare in questa sede il tema dell’improvvisazione nella commedia dell’arte, se non per ricordare che autorevoli studiosi hanno inteso negarne l’esistenza (se non la stessa possibilità), mentre a me pare che essa sia comprovata non solo da molte testimonianze dirette, ma anche, e forse soprattutto, dai documenti relativi a poeti e cantastorie improvvisatori, da Machiavelli a Cristoforo Altissimo, di cui ha egregiamente trattato Luca Degl’Innocenti (2015). Che poi l’improvvisazione stessa possa, o anche debba essere consistita di formule, di ripetizioni e di citazioni, questo appartiene al mondo dell’ovvio e non intacca la sostanza della questione.
Ho sempre pensato che il parlare, specie quando assume la forma e le dimensioni del discorso, possa essere immaginato come un gomitolo di filo, interrotto e saldato da diversi nodi che costituiscono il passaggio da un periodo a un altro. E sono stato molto contento nel trovare questa immagine usata da un cuntista siciliano, Salvatore Ferreri, il quale disse al Pitrè: “Com’è un gomitolo di refe? Svolto da un lato prosegue a svolgersi dall’altro, finché poi ne viene il capo; ma nella mia testa questo capo del refe non viene mai, perché la mia storia non ha fine”. Allora, potremmo forse dire che la differenza fra il recitare a memoria o all’improvviso consiste nella diversa qualità del filo: uniforme nel primo, diversa per materia, colore e spessore nel secondo. Talché l’improvvisatore deve egli stesso stupirsi di fronte al nuovo motivo che deve affrontare e che, inattesamente, lo indigna o lo commuove, ma in ogni caso lo coinvolge. Per questo l’ottava rima, cioè una forma metrica piuttosto complessa, diventa per lui una sorta di elemento stabilizzatore, che garantisce almeno la continuità del ritmo, mentre il ricorso a un ausilio visivo come il cartellone, tanto frequente presso i cuntastorie siciliani, molto vicini al teatro dei pupi (vedi Alberti 1977), garantiva la continuità del racconto, esaltandone al tempo stesso la ‘realtà’ (e paradossalmente avvicinandolo al libro illustrato, nel doppio significato del termine ‘illustrare’: rendere illustre e spiegare). E bisogna aggiungere che, proprio alla luce di queste considerazioni sul recitare\raccontare improvvisando, va riconosciuta l’importanza della proposta di Derrida (1967) sulla scrittura come modalità elettiva (o simbolica?) del pensiero, che non può essere concepito come un fluire continuo o, appunto, lo svolgersi di un gomitolo, quanto piuttosto come il faticoso emergere e fissarsi della parola, o del segno, adeguati alla sostanza del pensiero stesso.
Comunque sia di ciò, mi preme ricordare l’esistenza di una terza modalità del recitare – e chiedo scusa perché la citazione è basata unicamente sulla mia memoria, ed è quindi incerta e non verificabile. Circa quaranta anni or sono, ho assistito alla rappresentazione di un Maggio che ebbe luogo nelle vicinanze di un villaggio dell’Appennino tosco-emiliano. Siamo dunque in un ambito più squisitamente teatrale. Il Maggio era eseguito da un unico interprete (o attore o cantore che lo si voglia chiamare) il quale cantava un racconto che consisteva soprattutto nelle battute dei personaggi della storia di Rinaldo, aggirandosi per il prato dove si erano disposti non più di venti spettatori, ma accompagnato da un suggeritore, il quale gli mormorava all’orecchio, leggendole, le parole che il recitante doveva tradurre in canto, naturalmente accompagnandole con una gestica limitata ma intensa. Si ricorderà che il Maestro Cosimo citato da Pitrè aveva usato il libro come suggeritore, ma in maniera del tutto occasionale – nei possibili momenti di incertezza. Qui invece il suggerimento era costante, ma articolato in periodi relativamente brevi, la cui durata veniva moltiplicata da un canto strascinato e monotono, ma fortemente ritmato, come se, nel materializzarle, il cantore dovesse conferire alle parole segrete, che lui solo poteva sentire, la sacralità del rito anziché la coerenza di un racconto. Tant’è vero che – ricordo benissimo – esse mi giungevano quasi del tutto incomprensibili, come una messa cantata in latino. Né Alessandro D’Ancona (1991), né Paolo Toschi (1955) menzionano una simile forma del Maggio; Toschi però ricorda la presenza di un suggeritore, o rotolante, nella scena dei Maggi modenesi e versiliesi, precisando che “il pubblico non li vede”. Mentre qui tale presenza deve essere percepita come decisiva per il significato emotivo e rituale dello spettacolo: il suggerimento è, se non una voce divina, almeno quella dell’ispirazione o della tradizione.
Ma la comunicazione orale (o sarà forse meglio dire più genericamente ‘non scritta’) non si esaurisce nella pura vocalità: abbiamo già ricordato i frequenti inviti a variare i ritmi e le tonalità, ma anche ad istituire un rapporto visivo con l’uditorio, come se dicitore e pubblico dovessero guardarsi in faccia. Il recitante e l’oratore possono, anzi dovrebbero sostenere il loro dire con la gestica e con la mimica, offerte allo sguardo dell’uditore-spettatore: Quintiliano, sulla scorta di un breve accenno di Cicerone, aveva dedicato all’actio, cioè propriamente alla gestica e alla mimica, tenute distinte dalla pronunciatio, quasi la metà dell’undicesimo libro della Institutio oratoria. E due millenni più tardi, un dotto poligrafo che fu anche forse il primo professore di diritto costituzionale, Giuseppe Compagnoni, giunse a sostenere che la mimica del volto e il gestire delle mani anticipano il significato delle parole che vengono lette o recitate.
Del resto, può paradossalmente succedere che la comunicazione orale (in quanto non-scritta) si trasformi in comunicazione visiva, affidata appunto alla gestica e alla mimica: è abbastanza usuale riferirsi a un ‘linguaggio dei gesti’, quale la lingua dei sordomuti – ma gli antropologi hanno trovato qualcosa di simile presso i nativi americani, dove il linguaggio dei segni avrebbe costituito una sorta di lingua franca che permetteva di superare la grande frammentazione linguistica. Si tratta, in entrambi i casi, di vere e proprie lingue, nelle quali il nesso fra significante e significato è arbitrario, come in quelle parlate – anche se prevalentemente rinunciano all’articolazione sillabica, risultando più vicine alla pittografia. Come non succede per la mimica e la gestica che accompagnano il discorso parlato, sia pure muovendo da una sorta di grado zero che consiste, da un lato, in ciò che potremmo definire ‘silenzio gestuale’ e, dall’altro, nella deprecata monotonia della dizione. Si è infatti potuto sostenere che il gestire andrebbe considerato come una forma di espressione ‘naturale’ e quindi universale. Comunque, di norma il gesto coincide con la parola, o le si sovrappone, senza per questo necessariamente confermarla, potendo anzi contraddirla, come notato già da Quintiliano.
Ma la storia del teatro conosce un caso notissimo e particolarmente clamoroso, destinato a non restare senza seguito, in cui parola e gesto (o, più precisamente, parola e azione mimica) provenivano da fonti diverse – come del resto succede nel teatro dei burattini o in quello dei pupi siciliani, dove l’espressività vocale doveva avere un forte impatto; oppure, e in modo anche più marcato, nel teatro delle ombre, diffuso in Cina, in Turchia e, soprattutto a Bali (wayang-kulit) – ma in queste forme di spettacolo tale dissociazione non viene chiaramente percepita dallo spettatore.
All’origine c’è probabilmente il famoso aneddoto raccontato da Tito Livio a proposito dell’attore Livio Andronico, il quale, essendosi arrochito, avrebbe chiesto a un altro attore di recitare (cantare) al suo posto, mentre lui continuava a mimare (danzare) la sua parte. Raccolto dal domenicano inglese Nicholaus Trevet, che fu tra l’altro grande studioso e editore di Seneca, tale aneddoto si trasformò in una fantasiosa immagine complessiva del teatro e dello spettacolo dell’antica Roma. Scrive infatti Trevet: ‘Et nota quod tragedie et comedie solebant in theatro hoc modo recitari: theatrum erat area semicircularis, in cuius medio erat parva domuncula, que scena dicebatur, in qua erat pulpitum super quod poeta carmina pronunciabat; extra vero erant mimi, qui carminum pronunciationem gestu corporis effigiabant per adaptationem ad quemlibet ex cuius persona loquebatur’ (Franceschini, 1938).
Per quanto fantastica, tale descrizione dell’antico teatro romano apparve immediatamente credibile, al punto da essere riproposta quasi alla lettera dal Boccaccio e da Pietro Alighieri e da venire visualizzata nelle grandi miniature del frontespizio del Terence des ducs e del Terence du duc de Berry, oltre che in una miniatura della Cité de Dieu di Sant’Agostino: in sostanza essa rimase la più diffusa immagine del teatro antico, almeno fino alle ricerche archeologiche di Flavio Biondo e alla riscoperta di Vitruvio. E, in fondo, aveva una sua base di verità storica nella fortuna della pantomima già in epoca augustea.
Non è certo sempre agevole immaginare in che modi e in che forme l’espressività mimica e gestuale si aggiungesse o si sovrapponesse a quella verbale: come accennato, le informazioni più esaustive in questo senso riguardano i cantastorie, in particolare quelli siciliani e napoletani. Ma i giullari del basso medioevo e i loro eredi rinascimentali come lo Zoppino (vedi Rospocher 2014), non erano, o non erano in prevalenza cantastorie (vedi Zumthor 1990, 75-77); anzi, essi potevano svolgere una funzione di tipo ‘giornalistico’, da un lato raccontando le notizie che potevano aver raccolto, o inventato, nel corso del loro girovagare, ma anche, dall’altro, sviluppando polemiche di carattere politico o sociale, proprio come lo Zoppino; oppure esibendo le proprie storie dolorose. Due esempi, fra loro cronologicamente molto distanti, serviranno bene a illustrare queste diverse prospettive: quello del giullare Matazone da Caligano (vedi Molinari 1972), e quello di Nicolò Campani, detto la Strascino da Siena, autore vicino ai comici-artigiani chiamati pre-Rozzi (vedi Pieri 2010, 183-251).
Il Detto dei villani (o, più precisamente il ‘ragionamento’, raxone), che potrebbe risalire alla fine del Duecento, si apre con un indirizzo agli ascoltatori, spesso considerato indizio della recitazione orale, seguito da una meno comune autopresentazione dell’autore, ciò che lo colloca in qualche misura a metà strada fra le due tipologie sopra accennate, per svilupparsi in forma quasi drammatica con l’introduzione di tre personaggi che dialogano fra loro. E ciò comporta la concreta possibilità che il recitante abbia non solo variato la tonalità della voce, ma anche adottato atteggiamenti mimici e gesti adatti a qualificare il diverso status sociale dei personaggi: una vecchia contadina, ma il villano e il signore. E varrà la pena di ricordare come l’epitaffio del più antico mimo Vitalis – “Io imitavo il viso il gesto e il parlare degli interlocutori, e si sarebbe creduto che molti parlassero per una bocca sola” – indichi che l’interpretazione mimico-gestuale, oltre che vocale, dei personaggi, faceva parte delle abilità dei giullari.*(nota)
È inoltre pensabile che, in qualche modo, il recitante potesse manifestare la propria simpatia e solidarietà per l’una o l’altra delle figure interpretate – quasi un attore brechtiano, sebbene personalmente coinvolto nel dibattito poiché, confessa, era lui stesso di origini contadine, che però aveva rinnegato. Tutto questo contrasta singolarmente con la metrica di settenari a rima baciata, che induce a pensare a un ritmo monotono e scandito, quasi da filastrocca. Che però avrebbe forse potuto mantenere viva la presenza esistenziale del parlante (soprattutto se identificato o identificabile con l’autore), investita da una forse dolorosa ironia, o autoironia, dovuta all’ambiguità della sua posizione di villano fattosi cantore delle meravigliose virtù del suo padrone, rivolgendosi a un pubblico di altrettanto nobili ‘segnor e cavaler’. E questo avrebbe potuto conferire a quel ritmo monotono il colorito quasi sognante della favola, se non della canzone d’amore, confermato o contestato dall’atteggiarsi e dal gestire.
Il Lamento è una specie di genere letterario, il cui più antico modello potrebbe essere individuato nel monologo biblico con cui Giobbe maledice il giorno della sua nascita. Anzi, precisa Paul Zumthor, “nel XII secolo il planctus è diventato un genere nobile”. Naturalmente se ne possono individuare diverse tipologie – dal lamento attribuito a un personaggio nel contesto di una narrazione, come potrebbe essere quello che Achille rivolge alla madre Venere per la morte di Patroclo, oppure concluso in una singola lirica, come nel caso del catulliano Lamento di Arianna, ripreso e musicato nella celebre aria di Monteverdi ‘Lasciatemi morire’; fino al lamento in cui il poeta o il cantore lamentano le proprie pene d’amore, che in certi casi può assumere l’aspetto dell’invettiva, come nel sonetto di Cecco Angiolieri, ‘La mia malinconia è tanta e tale’: nella maggior parte dei casi si tratta di liriche di tono nostalgico o appassionato. E non è difficile immaginare che proprio in questo caso la dizione dovesse farsi particolarmente calda e commossa, magari accompagnandosi con una gestica e una mimica intensamente espressive e tali da poter catturare l’attenzione e l’empatia dello spettatore.
Il soggetto del Lamento dello Strascino non è certamente la pena d’amore, anzi egli polemizza contro chi piange per tali pene, delle quali è tanto facile liberarsi o consolarsi. Qui si tratta di dolori ben più concreti e lancinanti, i dolori fisici di quella terribile malattia che, nei primi decenni del Cinquecento aveva assunto dimensioni di pandemia e quindi potevano riguardare gli stessi ascoltatori\lettori.
Il Lamento di quel tribulato di Stascino Campana senese fu certamente recitato diverse volte, a partire probabilmente dal 1508 (vedi Pieri 2010, 184), prima di essere pubblicato nel 1521 proprio dallo Zoppino, considerato come trait d’union fra la recitazione di piazza e l’editoria (Rospocher 2014, 350). Il problema è forse se esso sia stato almeno in parte scritto prima di essere recitato: il racconto del sogno che lo avrebbe deciso appunto a comporre le sue ‘stanze’ lascia impregiudicata la questione, anche se è possibile, ma a mio modo di vedere improbabile, che le prime 117 stanze (cioè il nucleo originale del Lamento) siano state stampate in fogli volanti per essere distribuite agli ascoltatori.
Comunque sia di ciò, va notato come la metrica adottata sia l’ottava rima, che non ritroviamo nelle precedenti opere del Campani – almeno in quelle conservate che hanno una struttura drammatica. E l’ottava è una forma metrica originata dai cantari ma ormai consacrata all’epica cavalleresca, quella dei grandi poemi del Pulci, del Boiardo e dell’Ariosto, ma, proprio in quanto tale, utilizzata spesso dai cantastorie. Come se lo Strascino avesse inteso presentare la propria opera non come un planctus, ma propriamente come un epos, un racconto eroico, anche se non contiene alcuna forma di narrazione, che anzi si risolve in un disordinato affastellarsi di spunti diversi, tenuti insieme soltanto dall’auto-commiserazione, come se questo inesausto parlare potesse in sé costituire un conforto. Ne consegue che, sotto il profilo più squisitamente recitativo, la dizione avrà trovato il suo accento qualificante nella tonalità del dolore, ma con tutti gli scarti possibili, dal vero e proprio singhiozzare all’implorazione affannosa all’urlo di ribellione e di bestemmia, in certi momenti forse acquietandosi nel tentativo, abortito, di ragionare, o piuttosto di darsi una ragione. Dal punto di vista del gestire sarà invece più facile pensare a un dominante silenzio gestuale, interrotto a tratti da un violento tendere il pugno contro il Signore, subito seguito dalla remissione della sconfitta, mentre la sua maschera sfigurata parlava da sola, senza potersi neppure permettere dei cambiamenti. E mi chiedo anche se questo interprete di se stesso possa aver recitato in piedi, proponendosi quindi proprio come un narratore, o non invece disteso in una sorta di realistica messa in scena di qualcosa che non è racconto, ma verità attuale.
Per quanto palesemente ipotetici, questi tentativi di visualizzare il gesto, l’atteggiamento e la mimica dell’oratore (o del lettore) e di sonorizzarne la voce, sono però necessari perché la differenza tra il parlare o leggere in pubblico a voce alta e il farlo tra sé consiste proprio nella totale materialità della presenza del parlante. È ovvio che la figlia che legga un libro al padre malato per fargli dimenticare il lento scorrere del tempo, o la mamma che racconti una favola al suo bambino per farlo addormentare tenderanno a ridurre a zero gesti e mimica, ma non potranno astenersi dal conferire una propria espressività e un ritmo alla loro voce – né lo vorranno, magari senza intenzioni interpretative, ma in qualche caso adottando una cantilena per indurre il sonno.
Del resto, non è neppure sempre vero che il parlare o recitare in pubblico comporti la visibilità o addirittura la presenza fisica del parlante o dell’attore. Pietro Aretino ricorda che Cimador, figlio del famoso attore-buffone Zuan Polo Liompardi, “contrafacea una brigata di voci” stando nascosto dietro a una porta – forse una tenda. Così lo ‘spettacolo’ si risolveva nella pura vocalità, anche se si può immaginare che gli spettatori tenessero lo sguardo fisso su quella tenda, come per cercar di vedervi apparire quei personaggi che sembravano molti, ma in verità erano uno soltanto. Il fatto che poi gli spettatori fossero invitati ad assistere a una ‘vera’ commedia (che peraltro non ebbe luogo) non cambia i termini della questione.
Simili performances puramente sonore sono in qualche modo il corrispondente non solo delle pantomime, ma anche di quelle forme di tableaux vivants che furono i mystères sans parler ni signer, muti quindi e immobili, segnalati in Francia nel tardo medioevo, ma in qualche misura tornati di moda fra Sette e Ottocento, come raccontato da Goethe nelle Wahlverwandtschaften, ma anche delle ‘pose’ (attitudes) in cui si esibiva lady Hamilton, riproducendo le figure dei vasi antichi della collezione del marito, ambasciatore d’Inghilterra presso la corte di Napoli.
In questi casi il teatro tende palesemente a identificarsi con l’arte figurativa e quindi, con la scrittura se vogliamo tornare a Platone, il cui celebre passo (Phaedrus 275 d-e) mi pare molto intrigante, soprattutto perché, mentre dapprima la scrittura viene definita propriamente graphè, poche righe dopo la chiama logos (anzi logoi, al plurale), il cui primo significato è ‘parola’, ma che qui dovrebbe valere come ‘parola scritta’. Non vorrei esagerare, ma mi è venuto in mente che questa lettura potrebbe mettere in discussione il primo versetto del vangelo di San Giovanni, “en archè en o logos’”, ‘in principio era il verbo’, permettendo di tradurlo ‘in principio era la parola scritta’, ciò che rovescerebbe i termini della polemica di Derrida, facendo anche del cristianesimo, come dell’ebraismo, una religione del libro – anche se Gesù, va ricordato, non ha mai scritto una sola riga.
Comunque, identificarsi con l’arte figurativa comporta non solo la rinuncia alla parola, come nella pantomima, ma anche la rinuncia a qualsiasi sviluppo narrativo, ossia alla dimensione del tempo, che rimane tutto interno allo sguardo dell’osservatore. Anche se poi, a un certo momento, lo spettacolo dovrà necessariamente interrompersi, ma la sua durata vi è del tutto arbitraria.
Reciprocamente, allorché la fonte della voce non è visibile (anche se può essere nota), la voce stessa si riduce a puro tempo, perdendo così quella materialità palpabile che è in certi tipi di figurazione e in particolare della statuaria: l’aneddoto racconta che Rodin si sarebbe permesso di accarezzare le statue antiche del Louvre cui si ispirava. È il caso del canto del muezzin che invita alla preghiera: proprio perché non se ne scorge la fonte, la sua voce può essere percepita come proveniente dal cielo – come la voce della divinità stessa. E in casi del genere si può bene essere d’accordo con Marshall Mc Luhan: il medium diventa veramente il messaggio (ma il titolo del libro suonava The Medium is the massage – massaggio!).
Di fatto, la voce del muezzin potrebbe tranquillamente essere una voce registrata – e immagino che in certi casi lo sia davvero. Questo apre un capitolo del tutto nuovo, ma, forse, illuminante. Da quando la radio e poi la televisione sono diventate elettrodomestici presenti in tutte le case e in moltissimi esercizi pubblici, bar, caffè e ristoranti, ci siamo abituati ad ascoltare voci e musiche, come a vedere persone ed eventi che, il più delle volte, non possiamo sapere se sono realmente presenti nel momento in cui li sentiamo\vediamo, oppure se sono stati registrati in un tempo più o meno vicino. Di più: abbiamo noi stessi la possibilità di registrare una certa trasmissione e quindi di riportare al presente qualcosa che sappiamo essere accaduto nel passato, con una sorta di sospensione dell’incredulità. Che comporta altresì evitare di chiedersi a chi originariamente appartengano le parole che ascoltiamo. Così, al pubblico medievale certamente non importava affatto sapere se quella canzone o quel lamento d’amore che ascoltava erano del giullare che le stava recitando o piuttosto di un trovatore che poteva averli composti: la parola appartiene sempre a chi la pronuncia, ciò che vanificava in partenza la speranza di Giraut Riquier di veder riconosciuti la propria supremazia e i propri ‘diritti d’autore’, quali li aveva formulati nella famosa Supplica (vedi Bertolucci Pizzorusso 1966).
Una simile conclusione implicherebbe però ignorare o trascurare un concetto tanto decisivo quanto ambiguo: quello di interprete e interpretazione: ambiguo perché già in latino esso poteva ondeggiare fra il significato di mediatore e quello di espositore, di chi spiega o illustra o addirittura traduce – e varrà la pena di ricordare che anche il termine greco di hupokritès, solitamente inteso per ‘attore’, è stato tradotto con ‘interprete’ (Zucchelli 1963); ma anche decisivo in quanto istituisce il rapporto fra un testo, non importa se orale o scritto, e chi lo trasmette o anche semplicemente lo legge fra sé o addirittura lo rammemora – come se tale rapporto fosse necessariamente, an sich, di carattere interpretativo. E molti attori rivendicano il titolo di ‘interprete’, anche dopo che le avanguardie moderne o contemporanee lo avevano rinnegato, riducendo il testo drammatico a mero tema, se non addirittura a semplice pretesto. Ed è toccato alla lucida mente di Piero Gobetti sanare anticipatamente tale conflitto, affermando che l’attore interpreta il testo così come l’autore (il poeta) interpreta la natura.
Sarà fin troppo banale ricordare che il pubblico cinematografico assiste a uno spettacolo registrato e che la televisione e la rete hanno determinato la parcellizzazione e la privatizzazione di tale pubblico, con qualche clamorosa eccezione, quale la partita di calcio proiettata in piazza su maxi-schermo. Ma ciò ha contribuito ad esaltare la contrapposizione fra spettacolo registrato e spettacolo dal vivo, permettendo la sopravvivenza non solo degli spettacoli sportivi e dei grandi concerti rock, ma perfino del teatro drammatico e operistico, nonostante la sua conclamata insostenibilità economica. E mi chiedo quale ruolo abbia avuto questa contrapposizione – che mantiene allo spettacolo dal vivo il carattere di evento, mentre sarà possibile, per quanto più problematico, attribuire a quello registrato il valore di monumento – sulla recente, ma forse già passata moda delle nuove lecturae Dantis, proposte non più in ambito accademico o comunque elitario, ma in grandi piazze e davanti a un pubblico numeroso e composito, da personaggi diversi come Vittorio Sermonti e Roberto Benigni, letture che erano assieme anche commenti, ma di carattere intensamente spettacolare, almeno nel caso di Benigni, che accompagnava una dizione variata e interrotta con una mimica fortemente espressiva e capace di assumere anch’essa valore di commento come di interpretazione, cioè di due diverse modalità interpretative. Naturalmente, queste letture sono state registrate, trasformandosi così in documenti, in quanto testimoni di un evento, ma anche in monumenti. “La parola latina monumentum va ricollegata alla radice indoeuropea men, che esprime una delle funzioni fondamentali della mente (mens), la memoria (memini)” (Le Goff 1978, 38): le registrazioni entrano quindi nel grande patrimonio della memoria trasferita al di fuori della mente umana, a partire dalla scrittura per realizzarsi compiutamente nel libro. Un percorso che mi pare in qualche modo testimoniato dal fatto che nell’Iliade e nell’Odissea, così come in diverse tragedie, compaiono bensì delle tavolette, beltos, che sono delle vere lettere, mentre di libri (biblios\bublios) si parla, come accennato, soltanto a partire da Aristofane.
Recentemente – direi circa una ventina di anni fa – è stato lanciato sul mercato un nuovo prodotto editoriale, l’audiolibro, che ha avuto un rapido successo soprattutto in Germania, ma che si sta affermando anche in altri paesi, tra cui l’Italia, dove viene reclamizzato con una formula molto efficace: ‘leggilo a occhi chiusi’, che ne sintetizza i vantaggi, l’audiolibro essendo fruibile in tutti i casi in cui è difficile o impossibile usare le mani o gli occhi, come guidando l’automobile, oppure, semplicemente, quando si desidera starsene completamente rilassati, appunto a occhi chiusi, come succede con la musica, diventando straordinariamente utile nei casi di immobilità forzata, dovuta a terribili malattie muscolari come lo sla. In buona sostanza l’audiolibro può sostituire l’affettuoso lettore che intrattiene o conforta il vecchio o il malato. E mi chiedo se esso potrebbe inserirsi nella pratica dei protestanti, presso i quali il pater familias soleva leggere brani della bibbia alla famiglia riunita, spesso per il pranzo.
L’audiolibro è, ovviamente, una registrazione della voce di uno o più lettori. Talvolta si tratta dell’autore stesso e in questo caso si può avere la tentazione di credere che si tratti dell’interpretazione autentica. Naturalmente non è così, per il semplice fatto che un’interpretazione ‘autentica’ non esiste, per la contraddizion che nol consente. È il paradosso di tutte le letture a voce alta: senza arrivare all’estremismo di Chartier, il quale pensa che la stessa qualità materiale di un libro e le stesse scelte tipografiche possano condizionare il lettore, ci sarà da chiedersi se l’Oronte del Misanthrope sia stato davvero un poeta tanto mediocre, o se, piuttosto, una migliore dizione non avrebbe potuto salvare il suo sonetto al giudizio di Alceste. Si potrà allora concludere che l’unico caso in cui un testo e la sua trasmissione si identificano è quello dell’improvvisazione, anche se, con un nuovo paradosso, a rigor di termini sarà possibile parlare di ‘testo’ solo dopo che il discorso improvvisato sia stato registrato nelle reportationes che si incaricavano di fissare per iscritto, e quindi di diffondere, magari anche a mezzo stampa, le storie improvvisate di cantastorie come l’Altissimo o gli ‘articoli’ politici dello Zoppino. Il fatto poi che altre reportationes non autorizzate e che costituivano un vero furto, anche se non perseguibile, abbiano contribuito alla diffusione, magari distorta, delle opere di Shakespeare, già scritte, costituisce un problema diverso, concernente l’autenticità non più dell’interpretazione, ma quella stessa dei testi, come testimoniano le recenti rivalutazioni dei bad quartos, spesso fondate sul pregiudizio che il testo drammatico sia stato scritto per essere recitato e non letto, mentre la stessa cosa si potrebbe dire per i poemi cavallereschi, dai Reali di Francia all’Orlando furioso e, a maggior ragione, per tutta la ‘letteratura’ di origine orale (Ong 2002).
Nel tracciare questo schematico percorso storico ho cercato di mantenere un difficile equilibrio tra i nostalgici della poesia orale, come Paul Zumthor, e i profeti della scrittura come Jacques Derrida. A motivo delle mie limitate competenze, ho eccessivamente privilegiato il tema del teatro, ma ricordo essere stato detto che l’avvento della stampa avrebbe diminuito la ‘teatralità’ della vita sociale – oggi in certo modo sostituita dal frenetico esibizionismo reso possibile dai social networks.
* NOTA:
“Fingebam vultus, habitus ac verba loquentum \ ut plures uno crederes ore loqui“. Segnalato da Hermann Reich, Der Mimus. Ein Literatur-Entwickelunggeschichtlicher Versuch, Berlin, Weidmann 1903, pag. 599, nota 3, che rimanda al Corpus Iscriptionum latinarum XIV, 2408, ma reperibile anche in Antologia Latina 487a. Si tratta di una poesia di 26 versi, originariamente nella basilica di S. Sebastiano, sulla via Appia, ora conservata al Museo di Frascati, ma presente anche in un ms risalente al IX secolo. I distici elegiaci sembrano riportarla a un’epoca relativamente alta.
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Tratto dal sito: www.cesare23.it. L’articolo sarà pubblicato, in versione integrale, con corredo di note, ma in lingua inglese nel Journal of Early Modern Studies, diretto da Paola Pugliatti e Donatella Pallotti, reperibile all’indirizzo: http://www.fupress.net/index.php/bsfm-jems
L’immagine: Vigée Le Brun, Una ‘posa’ di Lady Hamilton
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