Nel ballottaggio per la presidenza del consiglio municipale di Ostia, sciolto due anni fa per infiltrazioni mafiose, che nel frattempo, lo confermano episodi recenti, non si sono minimamente ridotte, i voti alla candidata vincente sono stati pari al 18% degli aventi diritto. Per di più, nel terzo degli elettori che hanno ritenuto di dover partecipare a un’elezione per molti aspetti non di ordinaria amministrazione, hanno nettamente prevalso quelli eufemisticamente classificati di terza e quarta età. Eppure qualcuno ha subito parlato di vittoria. Non è una novità. Dopo le elezioni siciliane, il leader di un diverso schieramento politico aveva enfaticamente dichiarato che l’80% dei siciliani si era pronunciato contro la politica nazionale sui migranti, quando in realtà, pur accettando di fare – come lui – d’ogni erba un fascio, ad esprimersi in tal senso era stato poco più di un terzo degli aventi diritto al voto.
Due giorni prima delle elezioni di Ostia ricevo la mail di una persona che avevo invitato a un piacevole evento, che si terrà a Milano il prossimo dodici dicembre. Ai ringraziamenti di rito aggiunge la seguente postilla: la data a Milano in realtà è ancora vissuta come un lutto dalla città intera, ma probabilmente non si poteva fare in un giorno diverso. Conosco a sufficienza questa persona: è fermamente convinta che tutti, a Milano, continuino a soffermarsi pensosi il 12 dicembre 1969, quando, nella sede della Banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, un attentato neofascista provocò 17 morti e 87 feriti.
Sempre pochi giorni fa, ho letto di un sondaggio sugli orientamenti dei giovani. La maggioranza degli intervistati ha dichiarato di avere scarso interesse per le elezioni o, più esplicitamente, di non votare. Alla domanda successiva, sulle motivazioni del disinteresse per i problemi della collettività, molti hanno contestato questa conclusione: delle questioni che contano, ne discutevano quotidianamente sui social media.
Sono tre frammenti di una società che non è più nemmeno liquida, ma, appunto, frammentata in spezzoni non comunicanti. Insomma, più Antonioni che Bauman, con l’incomunicabilità prevalentemente provocata non dall’assenza di una memoria condivisa, ma dall’assenza tout court di memoria in una fascia consistente e in crescita della popolazione, mentre una parte più esigua coltiva una memoria di fatto fossilizzata, perché non riesce a utilizzarla per comprendere le mutazioni sociali. In mezzo, chi conserva il ricordo di un passato, spesso intriso di speranze e di impegni collettivi, che alimenta il disincanto per il presente.
Questo spettro si aggira per l’Europa, fa sentire la sua presenza anche nella Germania e nell’Austria, entrambe non più felix. Un tempo avremmo l’avremmo classificata come manifestazione sovrastrutturale di una realtà economica, dove il conflitto non è più tra le classi, ma tra le generazioni, con gli anziani che se la passano meglio dei giovani, perché perfino una pensione di 800 euro al mese non è precaria come il reddito di molti trentenni, che oltre tutto spesso guadagnano di meno. Con le ricchezze autentiche oscurate dalla materialità quotidiana di questo conflitto e dalla loro crescente origine nel mondo della finanza, per molti poco più di un’astrazione.
La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione, cantava Giorgio Gaber. Cinquanta anni fa le sue parole ci sembravano riduttive rispetto al rifiuto della delega che, classica eterogenesi dei fini, oggi si sta affermando come rifiuto della delega attraverso il voto, mentre partecipare è sinonimo di intervento in rete.
A volte, quando leggo gli interventi su alfabeta, mi chiedo se siamo molto diversi dagli uomini che si erano nascosti in luoghi isolati, dove custodivano il patrimonio letterario dell’umanità, mandando a memoria i libri, senza conservarne copie, perché un regime autoritario imponeva di bruciarli, per cancellare ogni retaggio del passato. In Fahrenheit 451 il superamento dello status quo è reso possibile da un conflitto nucleare, che offre ai ribelli la possibilità di prestare soccorso ai sopravvissuti, aiutandoli a ricostruire una società democratica, perché dotata di memoria storica.
Avere scelto come soluzione l’olocausto nucleare, che avrebbe fatto vittime anche fra i custodi del patrimonio letterario, non trascurabile dettaglio ignorato da Ray Bradbury, parla anche a noi delle difficoltà di immaginare un percorso fattibile per ricomporre la frattura tra chi la memoria la tiene viva, continuando ad aggiornarla, e una maggioranza dispersa tra gli immersi in un eterno presente e i nostalgici di un passato messo in naftalina.
(Pubblicato il 26 novembre 2017 · in AlfaDomenica )
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