(foto: Che Guevara e Jorge Ricardo Masetti, direttore di Prensa Latina)
Dopo pochi giorni da quel maledetto 9 ottobre 1967 in cui fu assassinato in Bolivia, Ernesto Guevara era già riferimento ideale dei movimenti che scuotevano l’occidente e il terzo mondo. Il 1968 italiano, con la pubblicazione da parte dell’editore Feltrinelli in anteprima mondiale del Diario del Che in Bolivia e di una antologia di discorsi e scritti, consacrò Guevara in questo ruolo. In quegli anni non esistevano voli aerei low cost, Cuba e Vietnam sembravano lontanissimi, eppure il Che e Ho Chi Minh ci parlavano da vicino del risveglio del terzo mondo e di liberazione.
Il fenomeno guevariano dura tuttora per le generazioni del duemila, pur se hanno letto poco i suoi scritti, conoscono altrettanto poco la sua biografia e lo riconoscono quasi solo nella famosa foto di Alberto Korda che lo ha immortalato con il basco e lo sguardo fisso nell’orizzonte. Il Che resta infatti sinonimo di ribellione e di indissolubile rapporto tra etica e politica. Una misteriosa alchimia ha infatti segnato il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Del resto l’azione politica ha bisogno di immaginazione e di simboli in cui riconoscersi: Guevara è tra questi.
Come ha ricordato più volte lo scrittore Eduardo Galeano, lo scandalo del Che sta nell’aver fatto quello che andava dicendo non in ottusa coerenza ma cambiando posizioni quando la realtà lo imponeva. L’icona guevariana ha inoltre tutti gli ingredienti per resistere al logorio dei decenni: l’assassinio in Bolivia a soli 39 anni, l’abbandono dell’Avana quando era al culmine delle gratificazioni seppure con qualche ammaccatura politica dovuta al dibattito nel gruppo dirigente che guidava l’isola, la coerenza portata alle estreme conseguenze, il volto bello e giovane ritratto in centinaia di fotografie, l’impossibilità di invecchiare sia nel fisico sia nelle idee, un viaggio giovanile in alcuni paesi latinoamericani fatto a bordo di una moto, come farebbe un qualunque ragazzo di oggi, che si trasforma in apprendistato alla vita. Ecco così che a cinquant’anni di distanza dal 1967 la discussione intorno a Guevara non muore. Anzi, è tra le poche immagini di rivoluzionario che non ha perso il suo smalto resistendo sia in Europa sia in America Latina, dove dell’iconografia comunista fanno fatica a sopravvivere Lenin o Rosa Luxemburg.
Accostandoci al Che va però subito sgombrato il campo da alcune interpretazioni o agiografiche o semplicistiche. Guevara non è stato soltanto uomo di azione, “guerrigliero eroico” come lo ricordano a Cuba. Troppo spesso non se ne evidenzia a sufficienza l’esperienza di ministro dell’economia e di ambasciatore dell’Avana in tante capitali straniere, oltre che di autore di libri fondamentali sulla storia della rivoluzione cubana e di appunti profetici sulle incongruenze del modello sovietico. Il Che sviluppa, a rileggerlo bene, una originale riflessione politica di fronte alla transizione cubana che delinea le prime forme di riorganizzazione dell’economia e della società.
Un altro errore sarebbe tuttavia considerare il pensiero politico di Guevara sempre coerente dall’inizio alla fine. La sua biografia intellettuale è invece caratterizzata da scelte che avvengono sulla scorta di esperienze, incontri, letture e maturazione politica indotta dall’esperienza rivoluzionaria a Cuba. Il Che, all’inizio della sua avventura cubana, è un marxista ortodosso che guarda con favore alle esperienze del “socialismo reale” di cui sa in verità molto poco, come la maggioranza dei latinoamericani. Poi matura progressivamente un distacco da quei modelli, sia perché li conosce da vicino sia perché ne intravede contraddizioni e limiti quando vengono importati a L’Avana. Nei suoi scritti – è bene metterlo in evidenza – ci sono intuizioni e spunti critici, non ancora però una teoria alternativa al “socialismo di Stato”. La vita di Guevara, infine, si spezza mentre la sua riflessione è in piena evoluzione e non ha ancora preso una forma compiuta. Proprio in questo tentativo inconcluso risiede una prima risposta sul perché Guevara continua a far discutere di sé: è stato tra i pochi protagonisti di esperienze rivoluzionarie ad essere consapevole della progressiva mummificazione sociale e politica dell’Unione sovietica. Non si può inoltre dimenticare – è un fatto rilevante per qualsiasi dibattito intorno alle sue idee – che la svolta nella vita del Che (la decisione di partecipare alla rivoluzione cubana) si annuncia quando ha già 28 anni. Prima di allora la sua biografia ce lo consegna come un giovane curioso della realtà latinoamericana, impegnato ad assolvere il ruolo sociale di medico, convinto di poter mettere a disposizione la sua professionalità in paesi dove l’organizzazione sanitaria era pressoché inesistente. In soli undici anni, da quando parte con Fidel Castro dal Messico verso Cuba a bordo dello yacht Granma fino alla decisione di guidare la guerriglia in Bolivia, condensa una serie di stupefacenti esperienze e di riflessioni politiche. Solo se si tiene conto di tutte queste avvertenze metodologiche, ci si può accostare a Guevara senza il rischio di inutili agiografie o di frettolose demolizioni.
Sulla soglia dei 31 anni, quando la rivoluzione cubana è vittoriosa, Guevara è molto diverso dal giovane studente di medicina che aveva girovagato in bicicletta e in moto per alcuni paesi latinoamericani e dal medico che aveva fatto le prime esperienze politiche in Guatemala. Ormai è un capo guerrigliero, uno dei dirigenti di primo piano del Movimento 26 luglio che ha diretto la rivoluzione. Il Che ha pure affinato la sua preparazione teorica. Ha letto con sistematicità testi di Marx e Lenin, è tra i pochissimi a definirsi comunista quando fa il suo ingresso a L’Avana. Guevara si ritaglia quindi un ruolo particolare nell’accelerazione degli eventi. Inizia a scrivere articoli e libri sulla storia della rivoluzione a cui ha partecipato. Può farlo grazie all’abitudine di annotare tutto quanto gli accade nei suoi diari. Intuisce che senza memoria e teoria l’esperimento politico a cui sta partecipando rischia di non avere una bussola. Questo sarà un assillo teorico che lo accompagnerà fino alla fine: per l’azione serve un pensiero. In seguito arriveranno gli incarichi di presidente della Banca nazionale di Cuba e di ministro dell’Industria dal 1961 al 1963 (il dibattito di quegli anni è da ristudiare a fondo grazie a importanti inediti pubblicati di recente).
L’assassinio di Guevara chiude un’epoca della rivoluzione cubana e della storia dell’America Latina. Cuba ripiega. Sfuma l’obiettivo del Che di estendere la rivoluzione in altri paesi del continente (dove prevarranno spietate dittature militari). La rivoluzione cubana si istituzionalizza. L’isola si avvierà verso la stabilità politica al prezzo della dipendenza dal colosso sovietico e dai paesi dell’Est europeo. Il ruolo di Guevara resta comunque legato ai primi dieci anni della rivoluzione cubana: quelli della lotta, della vittoria, delle speranze, delle utopie, dei progetti sociali. A tutto ciò va aggiunta la sua virtù antidogmatica – soprattutto negli ultimi anni – che lo porta sempre a ripensare il “senso” dell’azione politica. Per lui, la rivoluzione non serviva solo a cambiare gli assetti economici. Il suo cruccio era avviare una transizione politica e sociale in cui gradualmente si doveva costruire un modello socialista di società fondato sull’autogestione economica e sulla partecipazione. Su questo punto opera una profonda rottura con la tradizione economicista della sinistra comunista. Ecco perché la sua immagine fa discutere e ci affascina tuttora.
(tratto da ‘il manifesto’, 6 ottobre 2017)
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