- Il primo numero dei “Quaderni piacentini” uscì a marzo del 1962, ciclostilato in proprio; come pure il secondo, apparso il mese successivo. A fondare la rivista furono due giovani intellettuali appartenenti alla borghesia piacentina, Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi (entrata ufficialmente nella direzione con il n. 16), che tra il 1958 e il ’60, insieme ad Augusto Vegezzi e ad un gruppo di giovani studenti (composto da ex comunisti, radicali, socialisti delusi, anarchici, ecc.), nella loro sonnolenta città avevano dato vita al circolo culturale “Incontri di cultura”. Quella esperienza ebbe una particolare importanza per la loro formazione e la loro maturazione culturale e politica, in quanto ebbero l’opportunità di conoscere e di frequentare scrittori e studiosi del calibro di Vittorini, De Martino, Paci, Dolci e Fortini. Specialmente il rapporto con l’autore di Dieci inverni, pubblicato appena qualche anno prima, fu senza dubbio determinante per la fondazione e l’indirizzo iniziale della rivista: tra Fortini – che dopo quasi un decennio di militanza socialista aveva ormai rotto definitivamente i legami con il PSI e l’ala modernizzante di “Ragionamenti” – e il gruppo piacentino vi furono, tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, vari incontri e scambi culturali che sfociarono ben presto in un vero e proprio rapporto di collaborazione. In realtà, il loro dialogo non fu mai molto semplice (e basta leggere le posteriori testimonianze di alcuni dei maggiori protagonisti – Bellocchio, Fofi, Berardinelli, – per rendersene conto), ma è indubbio che nei primi anni di attività della rivista le indicazioni e i consigli di Fortini ebbero un peso davvero considerevole, tanto che il suo documento ciclostilato del ’61, da lui inviato a vari gruppi giovanili operanti nel nord Italia e poi intitolato Lettera ad amici di Piacenza, può essere considerato a tutti gli effetti come l’atto di fondazione della rivista, fino ad assumere col tempo un valore quasi simbolico (F. Fortini, Lettera ad amici di Piacenza, in L’ospite ingrato, Bari, De Donato, 1966, poi in L’ospite ingrato Primo e secondo, Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 78-84). Di fatto si tratta di uno dei saggi più densi e più lucidi di Fortini, in cui insieme ad una durissima critica del boom economico, dell’industria culturale e del nascente centro-sinistra (definito “operazione “Gattopardo” su scala nazionale. Le riforme entro le strutture esistenti.”), avanza una serie di proposte di lavoro, di suggerimenti di carattere etico, culturale e politico che per un certo periodo diventeranno l’asse portante del discorso della rivista. Ma per l’orientamento teorico e politico dei direttori dei “Quaderni piacentini” una considerevole importanza ebbero anche l’incontro con Raniero Panzieri, caldeggiato dallo stesso Fortini e avvenuto dopo i fatti di Piazza Statuto, e la conoscenza di Danilo Montaldi, che però non ha mai collaborato direttamente all’attività della rivista. Oltre alla durissima critica della società neocapitalistica, del centrosinistra, del regime sovietico e della strategia della “coesistenza pacifica”, allora in voga, ciò che accomunava personalità così diverse era l’adesione alle aspirazioni e alle istanze autonome e libertarie delle classi subalterne, alle esperienze del comunismo di sinistra e consiliare, basate sulla democrazia di base e sulla partecipazione diretta delle masse, in netta contrapposizione all’assetto burocratico dei gruppi dirigenti della sinistra ufficiale.
- Il primo decennio di attività è stato senza dubbio il periodo più innovativo e più incisivo della rivista. All’inizio i “Quaderni piacentini” non si discostavano di molto da quelle rivistine prodotte dai circoli culturali giovanili ed ebbero una diffusione abbastanza limitata, di tipo amicale; ma essi si caratterizzarono subito per il loro piglio antiaccademico, antidogmatico e spregiudicato, per il loro discorso eclettico e articolato che spaziava su vari campi (da quello teorico-politico a quello letterario, dalla critica cinematografica a quella di costume, ecc.), per le loro significative aperture internazionali e per il tono battagliero del loro orientamento politico che malgrado la vena un po’ goliardica è sin dall’inizio abbastanza netto. “Vogliamo che questo sia un foglio di battaglia”, si legge infatti nell’editoriale del primo numero, “portata non solo all’esterno ma anche all’interno. Ospiteremo testimonianze e opinioni anche contrastanti purché impegnate, vive, serie. E vorremmo infine provare che serietà non è necessariamente solennità e astrattezza. Si può e si deve essere seri senza essere noiosi. Con allegria” (I “Quaderni piacentini”, n. unico, a c. dei giovani della sinistra, marzo 1962, poi, “Quaderni piacentini” 1962-1968, Antologia, a c. di L. Baranelli e G. Cherchi, Edizioni Gulliver, 1977, I vol., p. 15. Della rivista è stata pubblicata una nuova antologia con il titolo Prima e dopo il ’68, a c. di G. Fofi e V. Giacopini e una breve Prefazione di P. Bellocchio, Roma, minimum fax, 1998). In sostanza, l’intenzione dei giovani piacentini era quella di fare della rivista un organo di battaglia e di dibattito politico e culturale, con un’attenzione particolare rivolta ai giovani, con il proposito di sollecitarli ad una “maggiore presenza e partecipazione”. E questo è un dato tutto sommato significativo, nel senso che i “Quaderni piacentini” intendevano subito caratterizzarsi come una rivista fatta da giovani e rivolta ai giovani, che si sforzava di esprimere una nuova sensibilità, un atteggiamento radicale, una nuova consapevolezza politica e culturale, nuove forme di scrittura e di comunicazione politica e culturale. Da questo punto di vista particolarmente incisive sono le varie rubriche di cui era corredata la rivista e che attirarono subito l’attenzione dei lettori: “La loro Italia” (poi “Cronaca italiana”), “Libri da leggere e da non leggere”, “Il franco tiratore”, e quella di critica cinematografica, tenuta dapprima saltuariamente da Piergiorgio Bellocchio e poi, a partire dal 1965, da Goffredo Fofi (che nel 1966, di ritorno dalla Francia, venne chiamato a far parte della direzione della rivista), e da lui proseguita numero dopo numero fino alla conclusione della prima serie della rivista. Si tratta in gran parte di note di critica sociale, culturale e di costume, di recensioni, di invettive, di velenose stroncature, di corsivi, interamente redatti dai direttori della rivista e scritte in uno stile sferzante e tagliente, sarcastico e corrosivo, e animati da un forte spirito polemico e di denuncia, da un’inconsueta intransigenza morale e politica. In realtà si trattava di una vera e propria campagna di controinformazione su temi e avvenimenti legati all’attualità e trascurati dalla RAI-TV, dalla stampa di regime e della stessa sinistra ufficiale, in cui si prendevano di mira l’establishment, miti, valori e pregiudizi dominanti, un certo cattolicesimo bigotto, la morale conformista e perbenista, la logica edonistica produttivistica e consumistica della società capitalistica, le ingiustizie perpetrate dai padroni e dagli apparati statali (forze dell’ordine, tribunali, ecc.). E a farne le spese furono davvero in tanti: mostri sacri come Moravia e Pasolini, rei di essersi compromessi con l’industria culturale, il gruppo ’63, cantore della modernizzazione capitalistica, intellettuali e dirigenti politici della cosiddetta “sinistra rispettosa”, la Fiat 600, giudicata difettosa ed estremamente pericolosa, l’anticomunismo viscerale e il filoamericanismo de “Il Mondo” di Pannunzio, la cui fine viene salutata con un grande sospiro di sollievo, la miscela pseudorivoluzionaria della rivista “Quindici”, l’ultimo parto della neovanguardia, ecc. Di certo oggi alcuni giudizi appaiono troppo perentori, severi e sommari, ma allora spesso coglievano nel segno, tanto che a volte suscitavano l’immediata risposta e la reazione spropositata di alcuni interessati che bombardavano i direttori della rivista di lettere piene di acredine e di risentimento (e ci fu persino qualcuno che addirittura li querelò), con strascichi polemici che talvolta provocavano l’inevitabile rottura fra le parti e inimicizie che durano tuttora.
Comunque, i “Quaderni piacentini” per un paio d’anni rimasero in gran parte ancorati alle radici provinciali piacentine, ma a partire dal 1964 conobbero un vero e proprio salto di qualità diventando ben presto il principale laboratorio politico-culturale, la più originale rivista della nuova sinistra italiana. Grazie all’incontro di varie esperienze e all’apporto di nuovi collaboratori, nei tre anni successivi gli animatori dei “Quaderni piacentini” riuscirono a coniugare e a integrare in maniera organica e coerente le varie tendenze del marxismo critico (operaista, francofortese, materialistica, ecc.), ospitando gli importanti contributi di R. Solmi, F. Fortini, C. Cases, V. Strada, A. Vegezzi, L. Amodio, S. Bologna, S. Timpanaro, R. Panzieri, V. Rieser, con l’analisi della condizione dello scrittore e della letteratura nella società neocapitalistica (F. Fortini, A. Asor Rosa, M. Isnenghi), la battaglia per una nuova arte cinematografica (P. Bellocchio, G. Fofi) accompagnata da testi critici e creativi di alcuni dei più importanti poeti contemporanei (B. Brecht, G. Cesarano, G. Majorino, G. Giudici, V. Sereni, F. Fortini, G. Raboni, R. Roversi, H. M. Enzensberger, ecc.), la trattazione critica dei più significativi avvenimenti politici, riguardanti la nuova sinistra americana e la lotta antirazziale in USA (R. Solmi, H. Draper, D. Georgakas, St. Carmichael), la lotta anticoloniale nei paesi del terzo mondo e in America latina (V. De Tassis, F. Fanon) e la rivoluzione culturale cinese (E. Masi), con l’informazione sulle nuove correnti della psicoanalisi, sul movimento dell’antipsichiatria e le dialettiche della liberazione (H. Marcuse, G. Jervis, E. Fachinelli), ecc. ecc.
Non è semplice rendere conto della complessa attività svolta in quel periodo dalla rivista piacentina, ma è importante sottolineare che essa coprì un vuoto politico e culturale reale, espresse un effettivo bisogno di novità, riuscendo a suscitare l’interesse e ad influenzare una massa sempre più ampia di giovani intellettuali e militanti della sinistra radicale, raggiungendo una tiratura sempre più elevata e riscuotendo un successo davvero raro per un periodico così fatto. Infatti durante la seconda metà degli anni sessanta i “Quaderni piacentini”, insieme alle altre riviste giovanili e ai gruppi del marxismo critico ed eterodosso, contribuirono con la loro attività a creare e a diffondere un nuovo patrimonio di idee, una nuova cultura, un atteggiamento radicale e antagonista, a raccogliere e ad esprimere quel senso di ribellione esistenziale, morale e politica che proveniva da ogni parte del nostro paese e del mondo intero, ad allargare l’area del dissenso nei confronti della società opulenta e della politica riformistica del centro-sinistra e del PCI e a preparare il terreno all’affermazione di un nuovo clima politico che raggiunse il suo culmine durante il sessantotto e l’autunno caldo. - L’irruzione sulla scena politica del movimento studentesco ha messo in discussione il potere costituito, vecchie gerarchie politiche e culturali, valori e pregiudizi consolidati, sentimenti e comportamenti collettivi, cogliendo tutti di sorpresa, anche molti animatori delle riviste e dei gruppi politici della nuova sinistra, che avevano scommesso su una sollevazione delle classi subalterne e del proletariato industriale. Per il gruppo dei “Quaderni piacentini” la saldatura con il movimento degli studenti fu invece il risultato di un processo spontaneo e naturale. Non a caso in quel periodo le pagine della rivista furono aperte alla collaborazione diretta di alcuni dei maggiori leader del movimento studentesco italiano e tedesco (Luigi Bobbio, Guido Viale, Rudi Dutschke, Hans-J. Krahl), che divenne per diversi mesi il principale argomento del suo discorso teorico, politico e culturale. Però l’adesione degli animatori della rivista alle istanze del nuovo soggetto politico non fu mai totale ed acritica. Si spiega così le reiterata polemica condotta dai direttori e dai principali collaboratori nei confronti dell’estremismo ideologico, del settarismo e del dogmatismo delle frange più estremiste della contestazione e del nuovo ceto politico sessantottino, contro il primato della politica e l’ideologia del suicidio dell’intellettuale, tipico del “maoismo” e del “guevarismo caricaturali correnti per cui gli unici compiti rivoluzionari sarebbero predicare e operare” (P. Bellocchio, Il bisturi e la spada. La storia di Norman Bethune, in “Quaderni piacentini”1968-1972, Antologia a c. di L. Baranelli e G. Cherchi, Milano, Edizioni Gulliver, 1978, II vol., pp. 236-240). Comunque il ’68 fu vissuto dagli animatori dei “Quaderni piacentini” come un momento di grande trasformazione, in quanto il suo spirito antiistituzionale, antiautoritario e di rottura venne considerato una vera e propria rivoluzione culturale, sociale e antropologica, generata da una forte domanda di radicale cambiamento, da un nuovo modo di considerare il ruolo dell’intellettuale e di concepire la politica. Tanto è vero che in quel periodo intorno alla rivista si aggregò un collettivo di giovani studiosi e di ricercatori che ha senza dubbio offerto un contributo determinante allo studio, all’analisi e all’interpretazione dei movimenti di massa della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta, con una serie di materiali di prima mano e di interventi interdisciplinari (saggi, interviste, corsivi, recensioni, ecc.) che rimangono ancora oggi un punto di riferimento indispensabile per la comprensione di quel singolare momento politico. E i contributi di L. Bobbio, G. Viale, V. Rieser, C. Donolo, F. Fortini, C. Cases, E. Fachinelli, S. Bologna, E. Masi, F. Ciafaloni ecc., di fatto devono essere considerati tra le analisi e le interpretazioni più originali e più suggestive prodotte in quel periodo dalla nuova sinistra italiana e internazionale. E sia per la quantità e la qualità dei materiali che per la sua spregiudicatezza e l’anticonformismo, la rivista piacentina divenne in quel periodo l’organo più rappresentativo e più letto della nuova sinistra italiana, raggiungendo in alcuni momenti una tiratura di 15-16 mila copie. Occorre però ricordare che proprio durante il ’68 l’impostazione dei “Quaderni piacentini” subì una sostanziale modifica, nel senso che i direttori della rivista, per effetto del clima politico dominante, decisero di abolire tutte le rubriche e di interrompere la pubblicazione di testi poetici, privilegiando l’analisi teorica e politica, per cui la rivista incominciò a perdere la sua ricchezza e la sua vivacità, quel taglio militante, spregiudicato e anticonformista che era stato in precedenza il suo tratto caratteristico: una tendenza, questa, che si accentuerà nel corso degli anni successivi.
- Come è noto, a partire dal ’68 la lotta politica dall’Università si estese progressivamente all’intera società, un fenomeno che ha caratterizzato per alcuni anni la situazione politica italiana. Ma con la nascita dei primi partiti della sinistra extraparlamentare gli animatori della rivista incominciarono a prendere tempestivamente le distanze dalle avanguardie politiche nate dallo sviluppo del movimento studentesco, anche se molti di loro aderirono ad alcuni gruppi (per esempio, Bellocchio si avvicinò a “Lotta continua” e diresse per un po’ di tempo l’omonima testata subendo addirittura un processo, da cui però ne uscì prosciolto). E questa scelta la distingue nettamente dagli altri periodici della nuova sinistra sopravvissuti agli anni sessanta e dai partiti extraparlamentari, che per la sua posizione critica le affibbiarono il nomignolo di “grillo parlante”. Ma come hanno spiegato in seguito Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi, “La nostra scelta è stata non di sposare un gruppo ma un’era, e non di seguire da vicinissimo l’evoluzione dei gruppi in cui il movimento si è diviso. C’è da dire che il problema dell’organizzazione l’abbiamo sempre un po’ snobbato, per aver assorbito organicamente ormai, il rifiuto del partito tradizionale, secondo un’ottica di tipo luxemburghiano” (G. Fofi (a c. di), A partire dai “Piacentini”, Intervista con P. Bellocchio e G. Cherchi, in “Ombre Rosse”, n. 24, Roma, Savelli, 1978). Quindi, a ben vedere, non si è trattato di una semplice trovata estemporanea ma di un atteggiamento politico coerente, fedele all’originaria ispirazione movimentista, spontaneista, libertaria della rivista, anche se, d’altro canto, occorre considerare che il bisogno di costruire un’organizzazione rivoluzionaria nasceva da un’esigenza reale, e innanzitutto dalla necessità di evitare la dispersione delle energie e delle potenzialità politiche espresse dal movimento studentesco, e di reagire e di rispondere in maniera compatta alla politica repressiva e poliziesca messa in atto dagli apparati statali e dal sistema dei vecchi partiti di governo, e alla “strategia della tensione” operata dalla destra, dai servizi segreti deviati e dalle componenti più conservatrici del vecchio regime democristiano. Non a caso nella prima metà degli anni settanta l’attenzione della rivista non si concentrerà sull’attività dei gruppi, bensì sui nuovi fenomeni politici e sociali (lotte di massa, terrorismo, femminismo, ecc.), sulla riflessione teorica, sulla crisi economica e sul nuovo ordine mondiale.
Intanto con il n. 43 (apr. 1971) si era ufficialmente costituito un “Comitato di direzione”, peraltro già operante da tempo, di cui facevano parte, oltre ai tre precedenti direttori della rivista (P. Bellocchio, G. Cerchi, G. Fofi), L. Baranelli, B. Beccalli, F. Ciafaloni, C. Donolo, E. Masi, M. Salvati e F. Stame, che reggerà, con alcuni cambiamenti (bisogna ricordare che con il n. 60-61 Edoarda Masi ha abbandonato la direzione della rivista, mentre ne entreranno a far parte A. Berardinelli e G. Jervis), le sorti della rivista fino alla conclusione della sua attività. Si chiude qui il periodo eroico e più rappresentativo della rivista e inizia la fase discendente della sua attività, quella del suo lungo ma onorevole declino. Beninteso, anche nel successivo decennio i “Quaderni” resteranno di gran lunga la rivista più importante, più coerente e rigorosa della nuova sinistra, ma da quel momento essa tenderà sempre più “ad accademizzarsi, a farsi di più difficile lettura” (G. Bechelloni (a c. di ), “Quaderni piacentini”, in Cultura e ideologia della nuova sinistra, Milano, Edizioni di Comunità, 1973, p. 34). Infatti, il suo discorso assume in quel periodo un taglio molto specialistico, astratto e dottrinario, mentre i fascicoli cominciano ad uscire a cadenza semestrale e sono in gran parte composti da lunghi saggi di analisi economica, sociologica, teorica, ecc., dato che ai fenomeni prettamente culturali, all’attività letteraria e cinematografica viene ormai riservato uno spazio abbastanza limitato. Proprio per questo motivo ritengo che nella prima metà degli anni settanta la parte più incisiva e significativa della rivista non sia rappresentata dai vari saggi di Salvati, Stame, Donolo, Ciafaloni, ecc., bensì dalle poche traduzioni, dai sempre più rari articoli di Fortini, di Cases, di Solmi e della Masi, e dalle recensioni di P. Bellocchio, di Fofi, di Raboni, Berardinelli, di Majorino. - Nella seconda metà degli anni settanta (con qualche segnale già a partire dal 1973, anno della crisi petrolifera) si è via via affermato, a livello nazionale e internazionale, un nuovo clima politico, in coincidenza della graduale caduta della tensione politica, dei valori e degli ideali che avevano alimentato i movimenti radicali degli anni sessanta e dei primi anni settanta e la stessa attività della rivista. La politica di unità nazionale e la linea dell’austerità produssero di fatto un processo di restaurazione e l’abolizione degli spazi politici aperti dalle grandi lotte di massa durante il passato decennio. E’ uno dei momenti più difficili della storia del nostro paese durante il quale si accentuano il degrado morale e politico, il fenomeno terroristico e la crisi del marxismo, del comunismo e della sinistra, vecchia e nuova. Malgrado le numerose difficoltà oggettive, i “Quaderni piacentini” sembrano però ritrovare un certo mordente e una particolare incisività, con la pubblicazione di alcuni dei numeri più densi del loro intero percorso, contrassegnati da importanti dibattiti (sulla crisi e sulla prospettive della nuova sinistra, sul ruolo della letteratura nella società tardocapitalistica, sulle leggi liberticide e lo stato, sul garantismo e il ruolo della giustizia, sul terrorismo, ecc.) in cui l’alto livello teorico si coniuga spesso con la lucidità e con un’intensa passione e tensione civile e politica. Nel 1977 venne peraltro fondata la piccola casa editrice Gulliver, che accompagnerà l’attività della rivista nei tre anni successivi, anche se questo progetto era stato anticipato alcuni mesi prima con la pubblicazione, a cura degli stessi “Quaderni piacentini”, dell’ultimo libro di Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), rifiutato dagli editori (Oltre a curare gli ultimi tre fascicoli della prima serie dei “Quaderni piacentini” e i due voll. già citati dell’Antologia, la Gulliver ha pubblicato le seguenti opere: AA. VV., Lessico politico delle donne, Milano, 1979, 5 voll., AA. VV., La cultura del ‘’900, Milano, 1979, 3 voll., “Ragionamenti”, ristampa anastatica, a c. di M. Ch. Fugazza, Milano, 1980). Si veniva così realizzando un vecchio progetto che Piergiorgio Bellocchio e gli animatori della rivista inseguivano da quasi un decennio. Tuttavia col n. 74 (apr. 1980) essi decisero di sospenderne la pubblicazione, mettendo fine al maggior tentativo attuato in Italia da un gruppo di intellettuali radicali di autogestire la propria attività culturale, di realizzare un progetto politico e culturale alternativo sia alla moderna industria culturale che alla sinistra storica.
- Nell’aprile del 1981 ebbe inizio la seconda serie dei “Quaderni piacentini”, malgrado il disaccordo di una parte del vecchio comitato direttivo, ormai convinta che la rivista avesse definitivamente esaurita la sua funzione innovativa e di stimolo. A pubblicarla è l’editore Franco Angeli. La nuova direzione è inizialmente composta da P. Bellocchio, che seppure controvoglia decide di conservare il ruolo di direttore responsabile, B. Beccalli, A. Berardinelli, G. Cherchi, G. Jervis, M. Salvati e F. Stame. Mancano quindi i nomi di F. Ciafaloni, dimessosi col n. 74 per disaccordi sui criteri di gestione della rivista, di L. Baranelli e C. Donolo, che non collaboreranno più alla redazione dei “Quaderni” (In seguito si aggiungeranno i nomi di M. Flores, G. Lerner, F. Moretti, R. Moscati e S. Nespor). La rivista riprende il suo cammino sotto il segno del dubbio e dell’incertezza, apertamente manifestati sin dalle prime battute della presentazione del primo numero: “Se ci sia spazio per una rivista dichiaratamente ideologia della nuova sinistra, non lo sappiamo. Questa è scommessa sulla quale i Quaderni piacentini ripartono” (Editoriale, I “Quaderni piacentini”, n. 1, n. s., Milano, F. Angeli, 1981, p. 2). In sostanza, due sono i principali propositi che si pone la direzione: quello di rilanciare la rivista partendo dalla rifondazione del marxismo e degli strumenti teorici, e di seguire con maggiore attenzione i processi economici politici e sociali in atto, i fenomeni culturali, espressivi, di costume. Ma, a dispetto delle buone intenzioni, la rivista non riesce a rigenerarsi, cioè stenta a venir fuori dalle difficoltà, dalle contraddizioni e dal processo di profondo declino e di disorientamento che ha interessato negli anni ottanta l’intera sinistra (ma d’altro canto non era un compito molto facile dato che a venir meno e a crollare è stata un’intera cultura, una particolare visione del mondo, della vita e della storia, una concezione del marxismo come sistema teorico e politico totalizzante). In linea generale, nei primi anni ottanta il discorso della rivista prosegue sulla stessa scia degli ultimi anni settanta, anche se è sbagliato considerare quest’ultima fase una semplice appendice della prima serie. Però non c’è dubbio che i “Quaderni” hanno ormai perso la spregiudicatezza, il mordente e l’incisività dei tempi migliori, tanto è vero che a risaltare maggiormente è un perdurante senso di disorientamento, di incertezza, di stanchezza e di disincanto, che rimane la nota dominante degli articoli e delle recensioni dei vecchi animatori del periodico, che nel frattempo si erano impegnati a costruire nuovi progetti culturali. Con la pubblicazione del 15° numero la pubblicazione della rivista viene infatti sospesa definitivamente, con grande rammarico dell’editore, dato che i “Quaderni piacentini”, con le sue 5 mila copie di tiratura, era di gran lunga la rivista più venduta del suo catalogo.
- Come si è visto i “Quaderni piacentini” hanno attraversato un ventennio (o poco più) cruciale della storia del nostro paese, durante il quale esso ha conosciuto un tumultuoso, dirompente e radicale processo di trasformazione e di modernizzazione, e si sono manifestati ed esauriti definitivamente culture, valori ideali, eventi collettivi e movimenti politici e sociali di singolare portata (marxismo, nuova sinistra, ’68, autunno caldo, il femminismo, il ’77). Da questo punto di vista l’itinerario della rivista ha rappresentato proprio la parabola di una generazione di intellettuali che dopo aver vissuto un periodo di entusiasmo e di illusioni hanno dovuto fare i conti con la sconfitta e il tracollo del loro progetto politico, delle loro istanze di cambiamento e dell’intera sinistra.
Ma qual è stato il ruolo svolto dalla rivista nell’ambito del contesto storico, culturale e politico del suo tempo e della nuova sinistra? Se si esclude qualche rara eccezione, il giudizio degli studiosi a questo proposito è stato in genere abbastanza limitativo; ma a mio modesto parere si tratta di un’opinione abbastanza opinabile. Certo, agli inizi l’influenza dei “Quaderni piacentini” (e delle altre riviste della nuova sinistra) sul contesto politico e culturale del tempo è stato abbastanza modesto e circoscritto a ristrette minoranze politiche e intellettuali, ma nel corso degli anni sessanta la sua importanza è andata man mano crescendo fino ad assumere alla fine di quel decennio e nei primi anni settanta un ruolo di primo piano. Come già si è avuto modo di dire, la rivista non ha mai seguito una vera e propria linea politica, ma ha voluto essere ed è stata principalmente, almeno nei migliori momenti, una rivista di dibattito su cui si sono confrontati e contrapposti, a volte con durezza, liberamente e in maniera spregiudicata, tendenze, opinioni e punti di vista diversi legati però da una comune prospettiva di radicale cambiamento dell’orizzonte umano, sociale e politico. In alcuni momenti le polemiche interne hanno incrinato i rapporti personali fra alcuni redattori, ma ciò non ha impedito che la rivista proseguisse la sua attività. Ma allora quale è stato il segreto della longevità, del successo e della fortuna dei “Quaderni”? A questa domanda Piergiorgio Bellocchio ha risposto spiegando che ciò che ha reso possibile un’impresa del genere è stato una sorta di evento miracoloso. Senza voler negare il verificarsi di certi eventi fortuiti, bisogna considerare che in realtà i veri fattori furono altri: la posizione geografica della città di Piacenza, che si trova al centro dell’area economicamente più avanzata dell’Italia settentrionale e vicino a importanti centri come Milano, Torino, Genova, Firenze, Bologna e Venezia, il sostegno ricevuto da intellettuali come Fortini, Cases, Edoarda Masi, Danilo Montaldi, Giovanni Pirelli, il fiuto, l’intelligenza, l’umiltà, la perseveranza e l’instancabile impegno dimostrati e profusi dal gruppo degli animatori della rivista, “che era quanto di meno carismatico, di più lontano da ogni traffico politico, universitario e d’industria culturale si possa immaginare” (P. Bellocchio, Prefazione a L’astuzia delle passioni, Milano, Rizzoli, 1995, p. X. “Oltre la fede, la speranza e la carità” ha proseguito nella stessa sede lo scrittore piacentino, “possedevamo buon fiuto e una discreta esperienza delle cose e degli uomini, qualità che di regola fanno difetto agli studiosi ma che sono indispensabili per governare un’impresa collettiva. […] I conflitti ci furono, anche aspri, ma la pazienza, il buon senso e la diplomazia del triunvirato riuscirono sempre ad isolarli e comporli evitando che diventassero rovinosi”).
Per tutta la durata della prima serie la rivista fu interamente finanziata e autogestita dai suoi fondatori, e soltanto dal 1972 la diffusione venne affidata a un distributore professionista. E questo ha permesso al gruppo dei “Quaderni” di conservare nel corso del suo intero percorso la totale autonomia politica e culturale, la massima indipendenza intellettuale e morale. Le riunioni redazionali furono ridotte al minimo, e le varie fasi dell’attività della rivista venivano curati direttamente dai suoi animatori, tra cui esisteva una totale sintonia. Il compito più delicato e oscuro venne svolto da Grazia Cherchi che si assunse l’ingrato compito di curare i rapporti (non sempre facili) coi collaboratori, mentre Piergiorgio Bellocchio si interessò dell’aspetto amministrativo e della distribuzione. La cooptazione di Goffredo Fofi contribuì ad allargare e consolidare i collegamenti con alcuni ex redattori dei “Quaderni rossi” e certi leader del movimento studentesco torinese. Quindi, nel periodo eroico l’impresa culturale della rivista gravò per intero sulle spalle del triunvirato. “Facevamo tutto da soli” ha dichiarato successivamente Piergiorgio Bellocchio, “dalla redazione alla tipografia, alla distribuzione. Giravo l’Italia con il baule della macchina pieno di pacchi della rivista, andavo personalmente dai librai per convincerli a metterla in vetrina. All’inizio era dura. Ma in poco tempo arrivammo a 4-5 mila copie di vendita. Un vero miracolo” (R. Chiaberge (a c. di), Com’eravamo: lotta dura, per la cultura, Intervista a P. Bellocchio, in “Il Corriere della Sera”, 26 sett. 1992).
Quello dei “Quaderni piacentini” fu quindi un sodalizio intellettuale e politico basato su un intenso rapporto di amicizia e su una stima reciproca, supportate e alimentate da un grande entusiasmo e da una passione ideale, civile e politica non comuni, che sono in fondo i sentimenti che animano tutti coloro che sono convinti che il loro impegno possa servire a una causa giusta, a far crescere un progetto collettivo, magari a cercare la verità. E ciò spiega perché i due intellettuali piacentini abbiano dedicato alla rivista i migliori anni della loro vita. Ma di quella lunga e faticosa esperienza alla fine che cosa è rimasto? Un fondo di amarezza e di rimpianto, un grande senso di delusione, di solitudine e d’impotenza per la sconfitta subita, per la fine di una grande illusione, di un sogno. “Guardandomi alle spalle” ha dichiarato infatti Grazia Cerchi, “vedo solo una serie di fallimenti: se tornassi indietro prenderei strade diverse… Non dedicherei a una rivista 20 anni della mia vita” (S. Giovanardi, La signora che non amava i compromessi, in “La Repubblica”, 23 agosto 1995, p. 30). Ma anche un certo orgoglio, e la convinzione di aver dato vita e partecipato ad un’esperienza straordinaria, ad un’avventura intellettuale che ha segnato un’intera stagione e che è diventata “l’autobiografia di una generazione”.
VV., I quaderni piacentini, Relazioni del convegno del 20 marzo 2004, La Città, n. 119, marzo 2004;
L. Baranelli, Gli oggetti smarriti di Piergiorgio Bellocchio, Lo Straniero, n. 96, Giugno 2008;
P. Bellocchio, I “Quaderni piacentini”, Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia, n. 119, maggio-dic. 1990;
P. Bellocchio, La scommessa “piacentina”, L’Unità, 29 nov. 1994;
P. Bellocchio, Al tempo dei “Quaderni piacentini”, Dossier Fortini, Testimonianze, n. 2, febr. 1995;
P. Bellocchio, Al timone dei “Quaderni”, L’Unità, 23 agosto 1995;
P. Bellocchio, Gli amici, i libri, la voglia di fare, La Città, n. 44, ott. 1995;
S. Benni, Quaderni spiacentini, Il Manifesto, 26 nov. 1989;
M. Cartosio, Ritorno alla Piacenza dei Quaderni, Il Manifesto, 19 marzo 2004;
G. Cherchi, In memoria di un lottatore, Franco Fortini, L’Unità, 28 feb. 1995;
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