Vite da follower di Marco Carsetti

 

Al tempo dei social network spendiamo gran parte del nostro tempo libero e lavorativo nella comunicazione. Seppure sopravviviamo a mala pena il nostro profilo e la nostra socievolezza godono di ottima salute. Tutti hanno qualcosa da dire, da commentare, da condividere, da sentenziare. Hanno qualcosa da far vedere e da vendere di se stessi. Al tempo dei social è scomparsa ogni forma di sobrietà, separatezza, umiltà e la capacità di distinguere tra immagine e realtà. Tutto si è impastato in una massa fangosa indistinta dove rimane a galla solo un io narrante spudorato. Il dolore non è più una cosa reale, come la nascita, il piacere, reali non sono più la morte e il pericolo.
Tutti ci siamo ridotti a essere pubblicitari di noi stessi. Tutti si autoproducono e si autopromuovono vendendosi sul mercato alla ricerca di followers, potenziali acquirenti.
Al tempo della fine del lavoro il lavoro diventa sapersi vendere e i social sono la piattaforma di lancio.
L’Uno si pubblicizza e si presenta ai tutti. I tutti eleggono l’uno che però è solo per se stesso e se ne frega degli altri ma promette di sacrificarsi per loro. Tutti per uno, l’uno per sé. Nello sconfinato sottobosco culturale i meno convincenti artisticamente, i meno seri, i meno riusciti, i meno capaci spesso sono i più aggressivi, ridondanti, barocchi, sentimentali, infestanti al livello di comunicazione social del proprio ego. E sono la maggior parte.
Nei vari campi, le diverse specie umane che vanno dagli educatori ai registi, dagli operatori sociali ai giornalisti, dagli editori agli scrittori e agli illustratori prolificano creando un mondo parallelo, una terra di mezzo di automobilitazione e autonarrazione dove dietro la maschera etica o estetica non c’è altro che il proprio io che si presenta.
Viviamo immersi in un mega selfie collettivo di micromegalomani che registra ogni insignificante dettaglio della propria quotidianità o movimento cerebrale. E così lo scrivere come il disegnare, progettare, educare, illustrare, documentare, cioè l’agire è fatto di quella stessa sostanza, quella patina, quella superficie con cui ci promuoviamo, ci presentiamo, ci pubblicizziamo, costruiamo di noi stessi un brand, un marchio di fabbrica.
Chissà se viene prima il marchio e poi il non saper far più nulla onestamente, faticosamente, caparbiamente, lentamente, umilmente, in disparte ma con la maestria del saper fare. O se probabilmente non c’è un prima e un dopo, una causa e un effetto ma questo tipo di essere umano è un frutto sterile di per sé senza un prima e un dopo, appunto un frutto che viene da lontano, un prodotto culturale che fa della comunicazione del proprio ego un ennesimo altro prodotto culturale dell’autoreferenzialità.
Volenti o nolenti siamo circondati da questi scriventi io narranti che usano gli altri per parlare di sé, che usano cose reali per creare immagini di sé. Non solo per uno scopo narcisistico e certo non per spirito rivoluzionario ma per una semplice ragione: l’unica merce spendibile sul mercato siamo noi stessi esattamente come delle pop-star. E il coro che si instaura con i nostri adepti, followers, “amici” ha quel sapore manipolatorio del dialogo confidenziale a tu per tu. Un io narrante che può parlare a dieci, cento, mille persone contemporaneamente ma che a chi legge sembra stia parlando solo a lui. Come quella maestra immaginata da P.K. Dick che parlava da un monitor a seicento studenti contemporaneamente guardando nel vuoto ma ogni singolo studente aveva la netta sensazione che parlasse proprio a lui.
Questo dialogo corale inebriante e partecipativo elegge a pop-star persino i maestri di scuola, il documentarista, lo scrittore, l’operatore sociale, l’illustratore.

Chi si nasconde ancora dietro le finalità alte di questo tipo di comunicazione che siano la condivisione, la partecipazione, il prendere coscienza, il ribellarsi, il diventare migliori, il lottare insieme per il cambiamento, semplicemente mente a se stesso, su questo ci diciamo tutti una marea di bugie. Quello che è vero invece è che si creano dei veri e propri fenomeni, delle mode, dei modelli dove l’immagine conta molto di più della realtà. La realtà anzi nessuno la vede né la domanda a gran voce.
Questo io narrante confidenziale che dà del tu all’etere immaginando di conquistare lo sconosciuto come nuovo adepto nutre prima di tutto la gratificazione del proprio ego e poi anche il proprio portafoglio. Questo è l’altro aspetto: la mercificazione di qualsiasi contenuto, persino il proprio corpo e la propria incolumità, per cui si fa cassa diventando pop star senza qualità ma con una grande dose di cinismo e marketing. La militanza diventa avventura pop: il popolo ha prestato la propria voce allo storyteller di turno che ha promesso di salvare i sommersi facendosi raccontare le loro storie.
Il crowdfunding è poi la monetizzazione di questo processo. Attraverso il crowdfunding si mette in vendita il brand di se stessi e più si è bravi a costruire la propria immagine più diventa reale il proprio peso economico. E tutto diventa calcolo e merce di scambio: le storie degli altri, la sofferenza, il dolore, la guerra, le ingiustizie. Lì dove è l’ideologia vittimaria a regnare e dare sostanza all’io narrante la raccolta monetaria si ammanta di spirito etico e si rivolge al suo pubblico ricattandolo: ci sono vittime da salvare su questa terra e io sarò il loro salvatore. Se mi sostenete le cose potranno cambiare e sarò anche il vostro salvatore.
Una massa di persone indistinta incapace di pensare e agire delega a poche persone il loro desiderio di contare, indignarsi, essere diversi. Non agiscono direttamente ma lasciano che qualcun altro lo faccia per loro dimostrandosi generosi in donazioni e commenti, condivisioni, partecipazioni. È questo minoritario popolo della mobilitazione politico culturale che crea il fenomeno. Il fenomeno non si genera da solo. È il pubblico a creare la pop-star e questa a sua volta è ben lieta di rimanere da sola, a essere e fare. Chiama alla mobilitazione in funzione della sua creazione e del suo successo e non di quello di tutti e insieme a tutti. Il calcolo già si rivolge al prossimo crowdfunding e a come usare il successo dell’adunata precedente.
Ma non sarebbe il singolo io narrante il problema se non ci fosse questo acquario incapace ormai di distinguere tra immagine e realtà. Il problema è questo acquario di cui tutti volenti o nolenti facciamo parte.
In realtà, poi, stiamo parlando del niente, ovvero del mondo dei morti autoreferenziali che parlano di sé come se da loro dipendesse il destino dell’umanità e del pianeta mentre non contano e non contiamo assolutamente nulla e le nuove generazioni stanno già altrove e in altri acquari sconosciuti, con ben diversi esiti e meccanismi. Ma noi che apparteniamo a un’epoca già trapassata e parliamo da questo mondo di morti viventi, forse potremmo ritrovare un po’ di vita nel prendere le distanze, nel tracciare un limite e definire una separatezza, con sobrietà e umiltà.
Se potessimo uscire da questo specchio autoreferenziale e piccolo, infinitamente piccolo, e tornare a scoprire le cose inaspettatamente e sorprendendocene, se potessimo ancora dovercele cercare, conquistare, inventare, se potessimo ancora sentire quanto è difficile avvicinarsi al piacere e al dolore, al lottare e al resistere, alla bellezza, alla nascita e alla morte e trattenere, conoscere, condividere questo momento come unico e irripetibile e non come una merce a buon mercato che appare e scompare a nostro piacimento quando ci va di assumerne una certa dose per conto terzi, allora forse potremmo ritrovare intorno a noi qualcuno di reale e non mascherato da pop-star che sacrifica se stesso per noi. E così noi saremmo più liberi di pensare e agire, di criticare, inventare e non solo vivere parassitariamente attraverso l’elogio della vita presunta di qualcun altro mentre il resto del tempo è la corsa dei topi.
L’ideologia vincente è che ci si salva da soli mentre il nutrito gruppo di followers è lì ad applaudire consumandosi poco alla volta.
Se a mancare è la capacità e la volontà di fare militanza dentro la realtà allora non ci resta che diventare dei creatori e consumatori di prodotti culturali distintivi. Nello sconfinato mondo del precariato sempre più vicino alle soglie di povertà il proprio benessere non si misura più né economicamente né rispetto a un certo ordine e disordine del mondo a cui si contribuisce nel bene e nel male, ma nella capacità soggettiva di acquistare, grazie alle pensioni di nonni e genitori finché in vita, prodotti culturali che ci distinguano dalla massa. E’ così che ci nutriamo bio, che acquistiamo quel libro, che vediamo quel film, che ci concediamo al turismo alternativo e all’aperitivo letterario, che sosteniamo quella campagna o quel blogger, che diventiamo followers di qualche momentaneo salvatore. E’ così che facciamo campagna pubblicitaria a noi stessi attraverso una narrazione a suon di foto e selfie mentre consumiamo o realizziamo quei prodotti culturali. E poi spargendo come polline nell’etere queste tracce di noi stessi abbiamo la sensazione di diventare irriducibili ed essere assimilabili solo a quella parte, quella giusta, quella militante, quella che lotta per un mondo più giusto, autoassolvendoci e salvandoci l’anima nello specchio riflesso di un clic digitale.

(illustrazione di Roberto Catani)

(Tratto dal sito della rivista ‘gli asini’, http://gliasinirivista.org/)

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