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Tra le prime 100 città americane solo 27 hanno un sindaco repubblicano e tra queste nessuna è nella lista delle più importanti. Considerando invece le prime 100 aree metropolitane, queste coprono solo il 12% del suolo americano ma vi abitano 2/3 della popolazione e rappresentano il 75% del PIL nazionale. Il divario tra l’America perfettamente integrata nel Mondo globalizzato e quella che fatica a tenere il passo — perché in parte ancora legata alla cultura e all’economia del passato — è evidente non solo a livello di ricerche e numeri, ma anche per chi attraversi il paese in automobile.
Di 5000 contee, Donald Trump ha vinto in oltre 2600. Ma questi numeri di per sè dicono poco. Le contee dove ha vinto Trump rappresentano poco più di un terzo dell’intera economia americana, il 36%. Le contee dove ha vinto Clinton sono quelle dove si concentra il 64% dell’economia americana secondo i valori del 2015.
Per anni l’establishment del Partito Repubblicano — il “Grand Old Party” o GOP — è riuscito a vendere ai suoi elettori un’indigesta ricetta economica di liberismo senza contrappesi perché offriva loro rassicurazioni sul fronte del conservatorismo sociale (aborto, famiglia). Donald Trump ha sfidato l’establishment del suo partito, consapevole che l’elettorato repubblicano meno benestante lo avrebbe seguito di più sul piano economico e che, comunque, l’attacco agli immigrati e ai diritti civili era già nello zaino di gran parte di esso.
Clinton ha aumentato di pochissimo il numero delle donne democratiche che l’hanno votata: a dimostrazione che l’idea di avere una Presidente donna non ha fatto breccia, mentre sessismo e misoginia sono stati un richiamo potente per grandi fasce d’elettorato.
4. DEMOCRAZIA IN USA E POTERI DELLE LOBBY NEL QUADRO MONDIALE
In seguito al particolare sistema dei Grandi Elettori, Trump è stata fondamentalmente eletto con i voti decisivi degli abitanti delle aree rurali e delle aree industriali in declino, che rappresentano la minoranza numerica del paese. Chi ha contribuito a convincerli?
Secondo tutti i costituzionalisti, una democrazia si basa sull’equilibrio tra i settori legislativi, esecutivi e giudiziari. Questo equilibrio ha smesso di esistere fin dal tempo di Ronald Reagan. In un paese in cui solo il 50 per cento delle persone votano, la polarizzazione politica ha portato ad un conflitto strutturale tra il settore legislativo e quello esecutivo del sistema. La Corte Suprema, che dovrebbe difendere i diritti dei cittadini, è diventata un braccio politico del Presidente che nomina i giudici. Con una sentenza a maggioranza repubblicana, era stata sanzionata la vittoria di George W. Bush, non di Al Gore, nelle elezioni presidenziali del 2000, escludendo la volontà popolare. E nel 2010 era stato deciso che le imprese hanno gli stessi diritti dei cittadini e possono pertanto finanziare campagne elettorali, proprio come i cittadini.
Di conseguenza, i fratelli Koch, signori di combustibili fossili, possono votare singolarmente come cittadini, ma contribuiscono con 900 milioni di dollari all’elezione dei candidati repubblicani conservatori. Una elezione presidenziale costa almeno due miliardi di dollari. E un’elezione senatoriale 40 milioni. Queste sono cifre che emarginano il cittadino comune. Non abbiamo allora un’oligarchia piuttosto che una democrazia?
Fondamentalmente, la democrazia cessa di essere reale se i cittadini non credono più nel sistema politico. Dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, con la fine delle ideologie, la politica ha perso la visione e la strategia a lungo raggio, diventando un fatto fondamentalmente amministrativo, con un sostanziale aumento della corruzione. I cittadini, e soprattutto i giovani, non si sentono parte del sistema. Partendo dai meccanismi partecipativi, i partiti politici sono arrivati a diventare autoreferenziali. E alla disaffezione politica, dobbiamo aggiungere la scoperta che il modello neo-liberale economico del libero mercato non ha in alcun modo portato alla crescita annunciata per tutti, ma ha invece aumentato in misura senza precedenti il divario tra i ricchi e i poveri (sempre più numerosi). Questo disastroso quadro etico, politico e sociale è aggravato dall’immigrazione di massa che, va ricordato, è il risultato della gran parte degli interventi militari statunitensi e europei in Iraq, Libia, Siria e Yemen e della crisi climatica.
Come sfondo di questo contesto occidentale, cresce una leadership mondiale di Putin nei confronti dei movimenti all’attacco dei diritti civili, abbiamo una Cina, un Giappone e un’India governata da nazionalisti e le Filippine con un presidente eletto sulla promessa di uccidere 60.000 persone, vittime di droga. E, ancora, un’America Latina che subisce una profonda crisi politica, evidente in modo diverso dal Brasile al Venezuela, dalla Colombia alla Bolivia, dall’Ecuador all’America Centrale. E, infine, un’Africa con una popolazione che crescerà da un miliardo a due miliardi in soli tre decenni e che continua ad avere frequenti crisi democratiche e inadeguate risposte alle esigenze economiche e sociali del continente.
Ma forse la maggiore novità è che il mondo anglofono ha deciso di abdicare al suo ruolo storico a favore della democrazia e del multilateralismo. In pochi mesi, il voto di Brexit ha portato la Gran Bretagna fuori dal tempo europeo e gli Stati Uniti sotto Trump si spostano da una politica globale ad una con una dimensione prettamente nazionale. Tutto questo avviene in un mondo multipolare, dove la Cina può ora trovare opportunità impreviste, come gli altri paesi emergenti finora incastrati in un ordine mondiale governato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei.
5. LA QUESTIONE CLIMATICA? MEGLIO CON TRUMP FUORI
Per concludere questa escursione, vorrei sdrammatizzare l’operazione forse più gretta in animo a Trump, riguardante il ritiro dall’accordo sul clima raggiunto a fine 2016 a Parigi.
Cos’hanno in comune Papa Francesco e l’attuale presidente degli Stati Uniti che si sono incontrati in Vaticano? Quasi nulla. Hanno una visione del mondo diametralmente opposta. Al di là dei convenevoli di protocollo, si sono scambiati alcuni doni. Trump ha regalato al Papa una scatola blu contenente i libri di Martin Luther King e, consegnandogliela si è augurato una buona accoglienza: c’è da scommetterci che gli piaceranno dal momento che è già avvenuto che Francesco abbia citato Luther King in qualche suo discorso come quello ai Movimenti popolari del 5 novembre 2016. Da parte sua, il Papa ha consegnato a Trump ciò che dona normalmente ai presidenti che lo visitano: il testo della Laudato sì e il testo del messaggio per la 50ma Giornata mondiale della pace. A parte i doni, erano più che latenti le differenze tra i due leader mondiali: questione climatica e pace come priorità ambientale e sociale da una parte; negazionismo, rilancio dei fossili, riarmo dall’altra. Solo una pragmatica distanza di funzioni su piani formalmente incompatibili o forse la messa in evidenza del campo su cui si dovrà giocare anche al suo interno la funzione planetaria della potenza ancor oggi più ambiziosa?
Giustamente la posizione sul clima del presidente americano crea scandalo, ma le reazioni non si stanno facendo attendere. Si stanno creando legami finanziari e industriali tra potenze che hanno un sostegno reale da parte dei popoli e dei movimenti e che, contestando il ritiro della firma USA a Parigi, ritengono ormai chiusa la parabola del sistema energetico già oggi in profonda crisi e trasformazione. Perfino nella fida Inghilterra conservatrice si è costituita “Conversation UK”, che riceve fondi da Hefce, Hefcw, SAGE, SFC, RCUK, Fondazione Nuffield, The Ogden Trust, Royal Society, The Wellcome Trust, Esma Fairbairn Foundation e The Alliance for Useful Evidence, nonché l’adesione di sessantacinque membri dell’università. Secondo questo trust la saggezza convenzionale per cui gli Stati Uniti dovrebbero rimanere nell’ambito dell’accordo di Parigi è errata. Un ritiro statunitense sarebbe il miglior risultato per l’azione sul clima internazionale. Anch’io mi sento di sdrammatizzare il ritiro degli USA dall’accordo sul clima e di accettare realisticamente le conseguenze dell’isolamento a cui vanno incontro come un danno politico per loro assai più rilevante che per i Paesi che mantengono fede agli impegni.
Gli stessi aiutanti del Presidente USA sono divisi sulla questione. Il capo strategico Steve Bannon testa la fazione negazionista spingendo per un’uscita. Il Segretario di Stato e l’ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Rex Tillerson, sostengono invece che gli Stati Uniti dovrebbero mantenere una “sedia al tavolo”. È nel potere del presidente ritirarsi dall’accordo di Parigi e forse anche dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che ha guidato la diplomazia globale del clima per oltre 25 anni. Un ritiro statunitense minimizzerebbe i rischi e massimizzerebbe le opportunità per la comunità climatica. In poche parole: l’amministrazione USA e Trump possono fare più danni all’interno dell’accordo che al di fuori di esso.
Ci sono quattro rischi legati alla partecipazione statunitense all’accordo di Parigi: che gli Stati Uniti mancheranno il loro obiettivo di emissioni; che mineranno gli aiuti finanziari; che provocheranno un effetto “domino” tra altre nazioni; e che ostacoleranno i negoziati delle Nazioni Unite. I primi due rischi non sono influenzati dal ritiro in sé. L’accordo di Parigi non richiede che gli Stati Uniti soddisfino il loro attuale impegno per la riduzione delle emissioni, o per offrire ulteriori finanziamenti climatici ai paesi in via di sviluppo. L’accordo è procedurale, piuttosto che vincolante; richiede un nuovo e più forte impegno per il clima ogni cinque anni, ma non è obbligatorio centrare questi obiettivi.
Gli Stati Uniti guidati dall’attuale governo mancheranno probabilmente il loro obiettivo climatico indipendentemente dal ritiro della firma. Avrebbero bisogno anche di più del piano di energia pulito varato da Obama per ridurre le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025. Le emissioni statunitensi con Trump sono destinate ad aumentare fino al 2025, piuttosto che diminuire. Lo stesso vale per i finanziamenti internazionali in materia di clima, che saranno tagliati nel piano di bilancio “America First”. Già avrebbero dovuto fornire 3 miliardi di dollari ma hanno finora donato solo 1 miliardo. Il rimanente non verrà mai.
Il terzo rischio è l’effetto domino: le azioni statunitensi dentro l’accordo potrebbero ispirare altri governi a ritardare l’azione per il clima, rinunciare ai propri obiettivi o ritirarsi. Ma ci sono poche prove che suggeriscono che l’abbandono statunitense indurrà altre nazioni a seguirne l’esempio. Il parallelo storico più vicino è il Protocollo di Kyoto, che gli Stati Uniti hanno firmato ma non hanno mai ratificato. Quando il presidente George W. Bush ha annunciato che gli Stati Uniti non avrebbero ratificato il trattato, gli altri Paesi si sono riuniti a sostegno del protocollo e hanno spinto gli Accordi di Marrakech nel 2001 per rafforzare le norme di Kyoto. Quello che più probabilmente provoca un effetto domino è il comportamento domestico degli Stati Uniti, piuttosto che qualsiasi possibile ritiro dall’accordo di Parigi.
Il quarto rischio è che gli Stati Uniti agiscano come freno nei colloqui internazionali sul clima mantenendo la loro adesione. Se gli Stati Uniti restano nell’accordo, conserveranno una funzione di veto nei negoziati o potrebbero sovraccaricare i negoziati chiedendo modifiche alle verifiche previste nel 2018 come ha suggerito il segretario dell’energia Rick Perry. In questa luce, dare all’ex capo di Exxon Mobil una “sedia al tavolo” è un’idea terribile.
Un ritiro statunitense, d’altra parte, potrebbe creare nuove opportunità, come la rinnovata leadership europea e cinese. Sulla scia delle elezioni statunitensi del 2016, l’ex candidato presidenziale francese Nicholas Sarkozy ha sollevato l’idea di applicare un’imposta sul carbonio del 1-3% sulle importazioni statunitensi.
La Cina, l’Unione europea e l’India – che sono i più grandi emittenti di CO2 insieme agli Stati Uniti hanno annunciato che resteranno impegnati nell’accordo di Parigi in caso di uscita americana. Ciò suggerisce che il consenso internazionale sulla lotta contro il cambiamento climatico attraverso l’accordo rimarrà intatto. In questa fase non è chiaro quale strategia seguirà l’amministrazione di Trump per uscire dall’accordo di Parigi. Tuttavia, riteniamo che sia improbabile che una rinegoziazione dell’accordo in linea con le intenzioni della Casa Bianca possa avere successo.
In realtà il ritiro ha già avuto un responso insieme critico e sprezzante: Macron ha corretto lo slogan “Make greater America” in “Make greater our planet”, segno di un diffuso sentire che giunge dai popoli in disaccordo con la vacuità degli obbiettivi sovranisti. Concludo con pessimismo che, purtroppo, nemmeno di Macron ci si può fidare, dopo le sue affermazioni di essere “e di destra e di sinistra”, come il gatto di Schroedinger che è complementariamente vivo e morto. Per scherzarci sopra amaramente, ma anche per ricordare l’inganno della politica, ricordo che Erwin Schrödinger immaginava una curiosa esperienza il cui laboratorio è l’immaginazione: racchiudere un gatto in una scatola sigillata. La scatola contiene un dispositivo che uccide il gatto appena rileva la disintegrazione di un corpo radioattivo che è un evento totalmente casuale. Dall’esterno è impossibile sapere cosa succede all’interno della scatola. Il gatto può essere vivo o morto, almeno per l’esperienza di conoscenza dall’esterno. Il gatto ha un “n” % di probabilità di essere morto, e un “m” % di probabilità di essere vivo. O, che è la stessa cosa, il gatto è vivo e morto allo stesso tempo. Per essere “e di destra e di sinistra”, Emmanuel Macron è come il gatto di Schrödinger. Nel piano della meccanica quantistica, un simile candidato possiede il dono dell’ubiquità. Ma non stare da nessuna parte è impossibile perfino dove sono state tentate, sperimentate, esaltate le “terze vie”: la voce dei popoli si sentirà assai prima di quanto ci aspettiamo e c’è da augurarsi che non acquisti il timbro di Trump.
(tratto da: Alternative per il socialismo, giugno 2017)
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