“I fondi pubblici per la ricerca sono nella media europea”, ha detto Matteo Renzi. Peccato che non sia vero. E ancora meno sono i fondi privati, a cui pure – in nome dell’ideologia di lasciar fare al mercato – è stata in pratica appaltata la materia. Le conseguenze si vedono, e chi volesse tentare un recupero avrebbe un compito assai arduo.
Secondo il nostro precedente presidente del Consiglio e attuale aspirante a riprendere quel posto, Matteo Renzi, “in Italia i fondi per la ricerca non sono più bassi, a livello pubblico, della media europea.” (Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2017). Il pregio di questa battuta consiste nel fatto che, non essendo i numeri delle opinioni “soggettive”, è facile verificarne la veridicità avendo a che fare, in caso contrario, non con una diversa opinione ma semplicemente con una falsità. E i numeri dicono questo:
Il fatto che esistano altri personaggi, incominciando dalla ex ministra Gelmini, che condividano quella battuta, ci dice solamente che questa falsità ha un numero di sostenitori tali da porre degli specifici interrogativi intorno alla questione del cui prodest.
Per la verità questo dibattito sulla pochezza della spesa in ricerca nel nostro paese, sia quella pubblica e ancor più quella privata, non è di oggi ma si pone da vari decenni, per cui anche con queste motivazioni si sono giustificati interventi tali da “agevolare” gli investimenti in materia di ricerca da parte delle imprese. Gli effetti sono stati negativi come dimostrato dalle verifiche effettuate anche dalla Banca d’Italia, ma poiché questi esiti negativi erano in buona misura previsti e prevedibili si è preferito non approfondire le cause e per non “danneggiare” le imprese, che un qualche “beneficio”, comunque, ne traevano. Anche questi risultati sono stati inseriti nella strategia del silenzio.
Nel frattempo economisti, studiosi, politici e interessati vari si sono ampiamente spesi nel tentativo di individuare terapie efficaci nel confronto della questione centrale, cioè la costante difficoltà del nostro Paese a sostenere uno sviluppo economico e sociale adeguato alla sua collocazione tra i paesi sviluppati. Le politiche alla jobs act sono state uno dei risultati di quell’impegno e non a caso sono servite anche per eliminare la questione della nostra competitività e del nostro sviluppo e, in parallelo per scaricare sul lavoro gli oneri di adattamento del nostro sistema economico, ed alimentare la riduzione della spesa pubblica, ivi compresa la spesa in ricerca, come sembrano dimostrare le affermazioni di Renzi.
Naturalmente non è che siano mancate o che manchino tutt’ora nel nostro paese le necessità di attuare riforme e ammodernamenti ma, rinviando ad una analisi specifica queste questioni, un paio di osservazioni generali è opportuno avanzare. La prima è che un conto è individuare un difetto e un altro è la capacità di correggerlo; e la seconda consiste nel fatto che quel difetto, se non corretto, può alimentare forme di adattamento altrettanto negative.
In qualche misura questo è successo anche nel caso della ricerca e dell’innovazione: la difficoltà di correggere la nostra debolezza in questa materia ha accresciuto il ruolo del sistema delle imprese e nel momento in cui la cultura economica generale guardava ai miracoli del libero mercato, la responsabilità diretta di quel “sistema” veniva riconosciuta anche dalla politica. Non con una propria assunzione di responsabilità ma, in omaggio ai “principi” correnti, con una delega pressoché ufficiale, coma si deduce anche dalla nomina a ministri dello Sviluppo di esponenti delle organizzazioni industriali. .
Nel frattempo il costante peggioramento della nostra competitività in genere e di quella tecnologica in particolare, (grafico 1) ha accresciuto il peso del debito pubblico e quindi della spesa pubblica.
Le terapie messe in atto prioritariamente non riguardano, tuttavia, la qualità della nostra competitività ma quella “scorciatoia culturale” per cui, in omaggio al mercato, ogni spesa pubblica deve essere ridotta. Tra queste si collocano ovviamente quelle relative all’Università, alla ricerca pubblica, ma ormai anche alla scuola dell’obbligo, sino a quella sanitaria. Si tratta di una logica che pone il nostro paese in termini crescenti in coda a tutte le statistiche internazionali in materia di sviluppo e di qualità sociali. Si è già arrivati al paradosso di considerare il numero di laureati “prodotti” maggiore rispetto alla domanda come un difetto da curare anche penalizzando il funzionamento delle stesse Università. Ormai stiamo superando le logiche originarie dello sviluppo economico cinese dove la competitività da costo del lavoro viene progressivamente superata dal crescente impegno in materia di formazione e ricerca. La tentazione di ridurre la nostra competitività ad una questione di costo del lavoro, già a suo tempo improponibile, diventa ora senza nemmeno una possibilità di sussistere: lo stesso modello cinese ha superato questa strategia arrivando ad investimenti in ricerca e sviluppo di entità sempre più prossima a quelli dei paesi avanzati.
Occorre a questo punto richiamare un’altra ovvietà e cioè il fatto che una valutazione sull’andamento economico di uno specifico paese non può, al giorno d’oggi, limitarsi a considerare gli andamenti, ad esempio del Pil, come un riscontro di significato assoluto. Questa osservazione è ovvia ma poiché in generale si tende a trascurarla (per il motivo che fa comodo una simile dimenticanza), sarà bene ricordarne alcune aspetti: se vogliamo sapere come va il sistema economico del nostro paese non è sufficiente misurare la variazione anno su anno del proprio PIL . Una tale misura è certamente necessaria e anche in qualche misura significativa ma occorre considerare che se il nostro Paese cresce del 3% si tratta certamente di un buon risultato, ma se nello stesso periodo i paesi assunti a riferimento crescono del 5%, qualche problema si pone. Questa considerazione si aggrava se a fronte di una nostra crescita dello 0,1% si dovesse constatare una crescita dello 0,5 negli altri paesi, per il semplice e ovvio motivo che si tratterebbe di differenze di valore relativamente ridotto ma percentualmente rilevanti e tali da richiamare specifiche considerazioni e interventi. Si dà il caso che queste ovvie considerazioni si applichino al nostro caso da non pochi anni, ma solo in particolari occasione vengano ricordate e, spesso, solo citate per il semplice motivo che sono “scomode” e chi le richiama è semplicemente un “gufo”. Che si tratti, invece, di considerazioni “centrali” è del tutto evidente cosi come è evidente l’interesse per sapere, ad esempio, che a seguito di queste diverse velocità di crescita tra il 2000 e il 2013 il nostro paese ha perso qualcosa come 2500 euro/pro capite di reddito all’anno rispetto a quanto si è verificato nei paesi di riferimento e cioè nel paesi dell’Euro15. Negli anni successivi, cioè quando, secondo la pubblicistica corrente, si stava avvicinando la fase di superamento della crisi, quel divario ha superato i 400 euro ogni anno.
Ciò nonostante la recente constatazione di una crescita del Pil in termini percentuali positivi ha convinto il governo ad affermare che il nostro paese era finalmente uscito dalla crisi. Dal confronto con gli andamenti delle variazioni del Pil di altri paesi, ad esempio dell’UE18, emerge chiaramente che così non è, che si tratta di un’altra “bufala” e che, ancora una volta, i numeri smentiscono il governo.
Come si vede il divario negativo della nostra crescita e sostanzialmente inalterato (anzi è crescente rispetto a periodi precedenti) e utilizzare un andamento positivo delle variazioni del Pil – peraltro molto modesto – per affermare che si è usciti dalla crisi rappresenta, a dir poco, una affermazione azzardata.
Una tale affermazione è, tuttavia, grave perché così facendo si afferma che le terapie messe in atto sono state efficaci. Poiché questo evidentemente non è, continuare a negare l’evidenza – e cioè l’errore delle terapie – implica la conferma delle stesse e, quindi, la necessità di evitare di elaborare delle alternative sia sul piano delle politiche industriali che della qualità dello sviluppo.
Purtroppo occorre evidenziare come il persistere per così tanto tempo nell’errore non è privo di conseguenze. In altre parole se oltre venti anni fa si fosse deciso di intervenire con provvedimenti di politiche di sviluppo scientifico-tecnologico si sarebbero trovati attori pubblici e privati, attualmente inesistenti o squassati dalla politiche condotte nel frattempo. In particolare una forma di suicidio economico è stato condotta nei confronti dell’Università e della ricerca pubblica, assunte a rappresentanza di quella spesa pubblica che è comunque da ridurre a tutti i costi. Per contro il sistema della ricerca industriale privata, oltre a dedicare risorse di gran lunga inferiori a quelle degli altri paesi, tende nel tempo ad allargare questo divario come risulta anche dal numeri di addetti alla ricerca (grafico 2).
Peraltro il nostro Sistema nazionale dell’innovazione è tutt’ora di fatto inesistente, privo, ad esempio, anche di alcuni strumenti essenziali di carattere finanziario per cui nelle statistiche internazionali relative agli investimenti a rischio, i dati per il nostro Paese sono inesistenti.
Se è vero che la realtà del nostro paese incomincia a influenzare anche i vertici di Confindustria, è difficile che questo possa portare ad una inversione di tendenza anche perché per ora questi cambiamenti sono ben lontani da una possibilità di recuperare una situazione così fortemente compromessa. Questo per confermare che se, un domani, un qualche governo volesse affrontare la questione della debolezza strutturale in materia di qualità dello sviluppo del nostro Paese, questo ipotetico governo dovrà mettere in campo non solo una dinamica degli investimenti crescente ma anche una serie di interventi e di strumenti a tutt’oggi assenti o molto carenti: la possibilità di selezionare gli investimenti pubblici nel settore dei servizi e delle politiche industriali, del Mezzogiorno, implica, tra l’altro, la capacità di programmare l’innovazione. Ma questa capacità comporta l’esistenza di un CIPE-Ricerca e Innovazione, di un Sistema nazionale dell’innovazione, comprensivo di un articolato complesso di istituzioni scientifiche e tecnologiche che assicurino una presenza operativa estesa nel campo della ricerca fondamentale, dello sviluppo tecnologico ed economico e il cui parere diventa vincolante quando s’incontrano situazioni di scelte progettuali complesse nelle loro logiche sociali. Così come è essenziale arricchire le valutazioni strategiche con quelle conoscenze delle dimensioni europee e internazionali senza le quali l’isolamento conseguente sarebbe il nuovo vincolo. Certamente non meno rilevanti dovrebbero essere gli interventi per regolamentare l’economia finanziaria.
La programmabilità dell’innovazione diventa una occasione di sviluppo qualitativo non quando quelle innovazioni si realizzano, ma solo quando queste realizzazioni si traducono in un percorso economico-sociale e culturale.
Il divario attuale tra questa situazione – che potrebbe essere assunta come un progetto politico – e la realtà nel nostro Paese è incommensurabile; la comprensione dei problemi più immediati dello sviluppo scientifico-tecnologico-economico-sociale deve ancora trovare degli autori credibili. Occorre segnalare che questa situazione trova tra i responsabili – oltre i diretti esponenti dei governi della seconda repubblica – le stesse imprese private (alle quali è stata, non a caso, ceduta la responsabilità politica diretta in questo settore). In sostanza la eliminazione delle strutture della ricerca pubblica è derivata e tutt’ora deriva dalla volontà di evitare la presenza dell’intervento pubblico nella definizione delle scelte e delle iniziative in materia di sviluppo scientifico tecnologico. La concezione liberista corrente offre una copertura “teorica” a queste posizioni e la debolezza strutturale del sistema delle nostre imprese – al di la dei limitati casi positivi – non poteva e non può tuttora accettare il rischio di una sostituzione di responsabilità nelle scelte del cosa e del come produrre.
La conclusione sta nella realtà del declino di questo Paese. Cambiare questo percorso negativo implica prioritariamente l’abbandono di “giustificazioni“ teoriche sbagliate. Nel complesso queste questioni possono avere degli sviluppi in direzioni del tutto opposte nel senso che mentre storicamente questa divergenza tra le politiche del governo e l’andamento negativo dell’economia sociale alimentava la crescita delle opposizioni di sinistra, attualmente si verifica una apparente contraddizione tra quegli andamenti negativi e il crescente controllo di questa opposizione da parte dei qualunquismi e dei populismi tipici delle destra. Lo sviluppo di questa logica presenta prospettive molto gravi.
Questa “contraddizione” è stata alimentata dalle difficoltà, o meglio, incapacità della sinistra ad affrontare le questioni poste sul tappeto dalla crisi delle politiche neokeynesiane che hanno aperto le porte alle teoria del libero mercato e dalle connesse evoluzioni del capitalismo, che ha colto le prospettive della globalizzazione e dello sviluppo tecnologico per raggiungere una posizione di temporaneo equilibrio a scapito di un nuovo e allargato ceto medio che comprende anche la vecchia classe operaia nei paesi avanzati, ma a vantaggio di una sua espansione nel mondo dei paesi in via di sviluppo.
Se si parte da queste considerazioni forse si potranno recuperare degli ulteriori e necessari blocchi sui quali costruire una prospettiva per una sinistra che intenda rifarsi a valori quali la libertà e l’eguaglianza.
(pubblicato su Egualianza & Libertà, 01 giugno 2017)
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.