Ci sono momenti particolari in cui occhio e cervello si fanno più aperti, nel senso di disponibili, alla percezione estetica. Forse meglio dire ricezione. Parlo di quelle situazioni – come quando rompi il fiato e si dilatano gli alveoli polmonari e respiri più profondamente – in cui si diventa specificamente propensi al riconoscimento della bellezza, non dico in ogni cosa, ma in molte delle cose cui normalmente non prestiamo attenzione, come al mercato una montagna di melanzane viola, l’occhio profondissimo di un pesce spada o la testa recisa di un tonno in pescheria, la pietra erosa di una facciata, le basole laviche di una strada della Sicilia sud-orientale.
Questo stato di ricettività felice si verifica quasi sempre nello spostamento, nel dis-allineamento delle coordinate del quotidiano che si produce quando sei in viaggio e hai scelto un luogo di vacanza (anche qui, vacazione nel senso di apertura all’esplorazione, alla ricognizione) capace di darsi come particolarmente inaspettato – deragliato rispetto all’idea corrente di Sud che normalmente adottano i non-del-Sud come me –, luminoso, ben tenuto, singolarmente bello, come l’isola di Ortigia, a Siracusa.
È sorprendendomi in questa condizione di apertura indifesa che mi ha trafitto il Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio, 1608, affossato laggiù nell’abside dietro l’altare della chiesa di Santa Lucia alla Badia, sull’acropoli greca, ma da secoli urbanizzata, dell’isola.
Mi era un po’ passata l’adorazione per Caravaggio, quando mi sono imbattuto in questa pala d’altare annoverata dagli storici tra le sue opere “tarde” (all’epoca aveva solo 37 anni: la straordinaria precocità degli artisti del passato e in genere degli umani vissuti qualche secolo prima di noi, slombati novecenteschi, che abbiamo una speranza di vita doppia della loro e la buttiamo via lo stesso).
Di nuovo il sentimento prevalente è stato la stupefazione. Una pura e semplice, nonché commossa e quasi disperata, stupefazione, per il sentimento sconsolato completamente privo di redenzione che emana da quella pala, appesa sul fondo lontano di una chiesa bianca e internamente scarna, quanto esternamente interessante, esemplare del barocco magistrale e bizzoso che si produceva da queste parti.
Il quadro lo vedi da una bella distanza, immerso in una luce incerta (artificiale? naturale? entrambe le cose?), non certo favorevole, ma nemmeno sbagliata, e subito ti accorgi non solo della sua stranezza e originalità, ma anche del consumo che ha subito dal tempo, degli interventi subiti e poi rimossi, delle incertezze che devono aver incontrato tutti coloro che vi misero, anche brutalmente, mano.
È un’opera stranissima e, come molte altre di Caravaggio, se vuoi fartene una ragione non puoi fare a meno di conoscerne la storia e soprattutto di avere cognizione del momento difficilissimo che l’artista stava attraversando quando la dipinse – appena fuggito da Malta, dov’era riuscito a farsi fare e poi disfare Cavaliere del Santo Sepolcro, e in viaggio verso nord e un futuro incerto.
Viaggiava con le sue opere su strade dissestate, carri privi di balestre – furono inventate solo sul finire del Settecento – oppure a bordo delle feluche del tempo, costruite e condotte secondo l’uso tecnico secentesco, sapiente e allo stesso tempo primitivo, imbarcazioni a vela per le quali ad ogni viaggio il naufragio era un’eventualità concreta. Alla fatica improba degli spostamenti bisogna aggiungere uno stato civile di reietto in contraddizione con la fama di artista inaudito, cioè di una potenza e di una spiritualità mai viste prima, nemmeno nel Buonarroti, che del resto di quadri in senso proprio ne aveva dipinti pochissimi, in anni giovanili, anch’essi in uno stile inaudito.
Mi sembra di averla già vista anni fa a Roma, questa tavola, in mostra assieme ad altre sue opere inquiete e tarde, singolari e bellissime – in certi locali attici e mazzoniani della Stazione Termini: interessante stranissima collocazione per una mostra così importante – con le quali nella memoria si confondeva. Probabilmente mi sbaglio, forse in quella mostra di Roma non c’era, ma a Siracusa è come se l’avessi subito ritrovata e riconosciuta.
Si dice sia una cosa minore e mal conservata. Mal conservata di sicuro – il fascino che emana dipende anche dall’evanescenza di una pittura che qui e là manca completamente –, ma «minore» cosa vuol dire? Meno bella interessante innovativa ben eseguita di altro opere del Maestro? Non direi. Ben visibili piuttosto un’angoscia e una desolazione personali che si riversano sul tema e traspaiono dalla scelta compositiva fino a quella cromatica, con la dominante ocra e il bianco e il rosso che risaltano qui e là, tra zone d’ombra puramente caravaggesca.
I due scavatori al lavoro in primo piano, come per ribadire il già da lui affermato altrove, e molte volte: nulla è importante se non smuove l’umiltà dominante sulla Terra, che, anche in presenza del sacro più sacro, quando non è in adorazione, come nella Madonna dei Palafrenieri in Sant’Agostino a Roma, è comunque al lavoro. È al lavoro quando decolla il martire, professionalmente, freddamente, palesemente dietro compenso. È al lavoro quando scava una fossa, quando tortura il Cristo alla colonna, lo è quando crocifigge Pietro a testa in giù e in molte altre occasioni. Quelli non sono i volti del male, ma della fame dell’ignoranza della soggezione.
Poi il corpo della santa – in secondo piano, schiacciato sul terreno, la testa reclinata semirecisa (in un primo tempo la dipinse staccata dal collo, ma era cosa troppo cruda per la prassi catto-mediterranea di edulcorare le immagini di martirio) che riceve un raggio di luce sul collo e sul mento – te lo devi andare a cercare tra le gambe nude, toniche & sotto sforzo, degli affossatori. Infine, in terzo piano, il gruppo compatto di quelli che diresti i notabili presenti all’evento, compreso un vescovo benedicente con in testa una mitra alta e bianca, un militare loricato, un giovane con mantello rosso. Lo sfondo è una vuota latomia, che immagini vastissima e vedi scura, monocroma, con una grande porta semichiusa in un vano voltato.
Risalta il quadro contro il bianco dominante delle pareti della chiesa, definendone, con la sua sola presenza, la restante nudità iconoclasta, come se il barocco di pietra dorata (questo sì «tardo) del resto della città volesse, lì dentro, pentirsi.
(tratto dal sito de: LE PAROLE E LE COSE)
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.