Cortocircuito culturale: il loop dei sistemi educativi nella civiltà occidentale di Roberta Roberti*

Che il sistema neocapitalistico nel quale fino ad ora abbiamo vissuto e programmato il futuro del pianeta sia fallito e necessiti di un ripensamento, più o meno radicale a seconda delle diverse posizioni politiche ed ideologiche dal quale lo si osservi, sembra ormai cosa assodata. Ciò implica anche evidentemente un altrettanto profondo ripensamento del mondo del lavoro, visto che non possiamo né immaginare che si possa ritornare al consumismo selvaggio e dunque ad un nuovo incremento esponenziale della produttività, né prevedere che la robotizzazione di molti processi produttivi possa fermarsi e dunque non accrescere ulteriormente il numero dei disoccupati.

In questo senso, perciò, la scuola dovrebbe agevolare la nascita di una nuova civiltà, nella quale le risorse liberate possano essere ridistribuite e la liberazione di tempo e profitti andare a vantaggio di una nuova dimensione esistenziale, più rispettosa delle relazioni e dell’ambiente. Una sfida impegnativa e coinvolgente, ad affrontare la quale credo però che la maggioranza degli insegnanti sarebbero preparati, data la loro formazione e il modello educativo al quale sono stati abituati fino a tempi abbastanza recenti.

Peccato, però, che la litania che continuamente sentiamo ripetere quando si parla di istruzione sia che la scuola non sa stare al passo coi tempi e che non prepara i ragazzi al mondo del lavoro e alla sfida della competizione che nella vita dovranno affrontare.

Delle due, una: la scuola deve agevolare l’avvento di una nuova società, di una nuova cultura e di una nuova mentalità, ovvero adattarsi all’esistente e formare i giovani affinché accettino in modo obbediente e passivo gli strascichi di un mondo ormai vecchio e destinato al fallimento?

Si tratta di un interrogativo di fondamentale importanza, la cui risposta costituisce un presupposto indispensabile per costruire la scuola di oggi e di domani e, vale la pena sottolinearlo in un Paese come il nostro che tende con piacere a denigrare se stesso ed esaltare ciò che accade altrove, costituisce la sfida della scuola in tutti i paesi occidentali.

Parliamo di contenuti e di competenze, parliamo di didattica e di strumenti formativi ed educativi, cioè del cuore pulsante del processo di apprendimento. Nelle riforme scolastiche degli ultimi 20 anni, a partire cioè dal ministro Berlinguer, passando per Moratti, Fioroni e Gelmini fino ad arrivare a Renzi, non si è cercato di portare a realizzazione il disegno di scuola previsto dalla Costituzione, che non assegna alle istituzioni scolastiche il compito di “servire l’utenza” o “preparare i giovani al mondo del lavoro”, ma qualcosa di ben più alto e complesso, “favorire lo sviluppo e la realizzazione della persona umana” . Le riforme scolastiche suddette hanno invece progressivamente smantellato tutto ciò che di buono la scuola italiana aveva realizzato fino ad allora e oltretutto senza dare risposta all’interrogativo che ci si è posti all’inizio, cioè a quale modello di società la scuola dovrebbe essere di supporto.

Le ragioni delle riforme, confluite nella “Buona Scuola” renziana, sono altre. Prima di tutto risparmiare ed inseguire il sogno della privatizzazione del sistema scolastico come di molti altri settori strategici dello stato sociale, trasformando in servizi i diritti dei cittadini. In secondo luogo innovare per innovare, abbracciando proposte e metodologie didattiche provenienti dall’estero, e specialmente dal sistema educativo anglosassone, perché ciò che è straniero è sempre bello e affascinante, e ciò che è nuovo ancor di più, non importa se assurdo, ingiusto e soprattutto inutile ed inefficace. Il sistema anglosassone ha ispirato i nostri ministri dell’istruzione ed il risultato è sotto gli occhi di tutti. Inserire il sistema della competizione a scuola, salvo poi raccontarci che dobbiamo essere inclusivi, aperti a tutto, capaci di insegnare tutto, si sta rivelando quel disastro che, per 15 anni almeno, molti protagonisti del mondo dell’educazione avevano preannunciato.

Si è iniziato diminuendo le ore di lezione in tutti i gradi di scuola e riducendo l’obbligo scolastico; si è proceduto devastando il Tempo pieno alle elementari, eliminando le compresenze di due maestre contitolari e reinserendo la maestra unica, affiancata da altre quattro/cinque insegnanti a coprire uno spezzatino di ore sbriciolate e affannose. Si è letteralmente cancellato il Tempo prolungato alle medie e si sono fortemente penalizzati gli istituti tecnici e professionali, riducendo drasticamente le ore di laboratorio e di compresenza.

Poi si è passati ai contenuti e si sono sostituiti i Programmi con le Indicazioni Nazionali: ciò ha comportato l’esaltazione dei curricoli verticali a discapito soprattutto dell’insegnamento della storia e della geografia, i cui contenuti sono stati drasticamente ridotti alle elementari. La geografia antropica è letteralmente scomparsa dalle scuole superiori.

Ha fatto la sua massiccia comparsa l’informatica, che da strumento didattico interessante e pieno di straordinarie potenzialità, è divenuto il metodo principe da cui imparare e da cui farsi sostituire e tiranneggiare.

I ministri successivi non hanno corretto nessuna di queste scelte. Anzi, hanno fatto di peggio: hanno assunto a sistema e fortemente rinforzato l’InValSi, l’ultima e forse la peggiore trovata della ministra Moratti.

Esaltare i test InValSi fino a farli diventare il parametro principale di valutazione dell’efficacia dei processi di apprendimento ha condotto, come previsto da chiunque si intendesse un minimo di pedagogia e di didattica, ad un terribile impoverimento culturale. Era prevedibile che i giovani sarebbero presto divenuti incapaci di ragionamento autonomo e di riflessione critica, che allenarli a fare una crocetta scegliendo fra opzioni preconfezionate avrebbe portato ad un appiattimento nozionistico e sterile e ad una graduale incapacità espositiva ed espressiva.

Alcune settimane orsono è scoppiata l’ennesima polemica sul degrado delle competenze in lettoscrittura dei giovani italiani. Ma come potrebbero saper leggere e scrivere decentemente, se non lo fanno quasi mai? La maggior parte delle verifiche scritte sono ormai strutturate o semistrutturate, a risposta multipla o similari (riempire gli spazi vuoti, vero/falso, abbinare affermazioni o dati vari…), al fine di allenare adeguatamente gli studenti non solo ai test InValSi, ma ai quiz infiniti che sono destinati ormai ad incontrare all’università, nei corsi postdiploma o nel mondo del lavoro. Leggere è solo uno strumento, da usare con la massima rapidità e in modo selettivo. Non ha più il tempo di diventare un piacere. Scrivere vuol dire ormai usare il linguaggio sintetico e iconografico degli sms o dei social network, non certo articolare pensieri ed esprimere opinioni ed emozioni in modo profondo e personale.

Se vogliamo una scuola che rincorra il nuovo e che si adegui ai tempi ed alla società, ad un mondo del lavoro che cambia ad una velocità incredibile, alla ricerca tecnologica che procede a ritmi vertiginosi e che senza dubbio i giovani nativi digitali conoscono prima e meglio dei loro docenti, non lamentiamoci. Teniamoci dei ragazzi che sanno usare tecnicamente al meglio le nuove tecnologie, ma molto spesso non sanno usarle criticamente, che non scrivono e parlano in italiano come pretenderemmo, che non hanno i valori delle generazioni precedenti, che seguono i social networks e le mode, che fanno i bulli e sognano di andare in TV, che hanno con i loro genitori rapporti amicali, privi di direzione e autorevolezza e che questo genere di relazione pretenderebbero di ritrovare a scuola.

La scuola non può e non deve assolvere a tutti i ruoli che le vorrebbero attribuire, non può in nessun modo competere con una società che va nella direzione opposta a quella che dovrebbe proporre ai suoi studenti come modello. Men che meno con le risorse e le strutture che ha e con la logica della meritocrazia, che mette in competizione fra loro gli insegnanti minando profondamente la qualità dei percorsi educativi, che funzionano SOLO con la cooperazione.

Nel suo complesso, la scuola italiana di oggi è un disastro: è il frutto di misure raffazzonate e superficiali, sovrapposte freneticamente una all’altra senza avere neppure il tempo per assimilarle, metterle in pratica e studiarne le conseguenze. Se regge nonostante tutto, è solamente per merito degli insegnanti, buoni o cattivi, non certo per merito dei presidi sceriffi che tanto piacciono anche alla nuova ministra Fedeli. Il problema vero è che oggi la scuola è controllabile e controllata, privata della possibilità di non ubbidire al governo di turno e alle sue direttive, perché la struttura che è stata costruita dalla legge 107 come summa delle riforme da Berlinguer in poi, è fortemente gerarchica e centralizzata, con buona pace dell’autonomia e della libertà di insegnamento. Ed è una struttura che mira a realizzare pienamente la scuola-azienda ed asservire sempre più l’istruzione alle richieste del mondo del lavoro, dell’economia e della finanza.

La sfida reale che la scuola dovrebbe porsi oggi è invece di tutt’altro genere e può essere realizzata solo dentro le scuole e con le scuole, non a suon di deleghe e voti di fiducia, di finte campagne di ascolto e di circolari intimidatorie, nei corridoi e nei palazzi, da gente che si è sempre occupata di tutt’altro.

Serve una scuola che sappia dare senso al sapere, che educhi alla cittadinanza e alla vita, prima che alla professione. Una scuola che sappia essere inclusiva e valorizzare le potenzialità di ciascuno, che non crei individui passivi, isolati e facilmente manipolabili, come forse a qualcuno farebbe comodo. Una scuola che aiuti ognuno a trovare il metodo di studio adatto al suo stile di apprendimento, solide basi culturali su cui continuare ad imparare lungo il corso di tutta la vita. Una scuola che abitui alla curiosità e al dubbio, a prevedere i problemi per poter essere pronti a risolverli quando si presenteranno, non semplicemente a scegliere fra procedure date per risolvere una serie limitata di problemi già schedati e conosciuti. Acquisire capacità di rielaborazione critica. Conoscere le regole per poterle superare e innovare. Non può essere Buona una Scuola in cui tutto ciò è stato ignorato completamente, senza curarsi delle conseguenze. E siccome assumersi la responsabilità dei propri sbagli non è certo lo sport preferito dei nostri politici, solo una reazione decisa – e non solo della scuola, ma di tutto il mondo della cultura, della scienza e dell’arte – ci salverà da questo cortocircuito culturale.

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