Socialdemocrazia: un bilancio storico (e non solo) fallimentare di Diego Giachetti

Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso il crollo dei paesi detti a socialismo reale e dell’idea di comunismo ad essi associata, comportò nel senso comune una rivalutazione della socialdemocrazia e delle sue concezioni gradualiste, di democratizzazione razionale del sistema capitalistico. Col comunismo “condannato dalla storia”, la socialdemocrazia avrebbe dovuto e potuto occupare lo spazio rimasto libero. Era un’illusione. Senza aspettare l’oggi, pochi anni dopo il fatidico 1989, si poteva constatare che il disegno, se mai c’era stato, era rimasto sulla carta, anche là dove si erano nutrite possibili speranze. Mi riferisco ai paesi dell’Est europeo, dove i partiti ex-comunisti, velocemente ribattezzatisi socialdemocratici, riuscirono a guadagnare una certa influenza sul piano elettorale, anch’essi però incapaci di sottrarsi al destino cinico e baro che accompagnava l’adozione del nuovo nome: accettare l’economia di mercato e la restaurazione del capitalismo. Il bilancio storico della socialdemocrazia, che già allora si poteva ricavare, non era meno fallimentare di quello dello stalinismo.

 

Il fallimento dell’impianto socialdemocratico, per il movimento operaio, per le classi subalterne in genere, non è stato meno pesante di quello dei partiti di provenienza stalinista e ha egualmente contribuito alla disarticolazione del movimento operaio stesso e alla perdita di identità politica e programmatica. Non mi interessa qui ricordare i fallimenti antichi e memorabili del socialismo europeo. Ne cito solo uno, il più drammatico, da non dimenticare: nel 1914 i partiti e i sindacati socialisti di Germania, Francia e di altri paesi occidentali, si dimostrarono impotenti non solo nell’impedire la guerra ma, una volta dichiarata, salvo poche felici eccezioni, si fecero paladini, inneggiando ai propri eserciti e alla propria patria. Detto questo, si deve constatare che i partiti socialdemocratici non hanno realizzato in nessun luogo il fine che si erano prefissati originariamente: la costruzione di una società socialista in sostituzione di quella capitalista, attraverso riforme graduali, senza rottura rivoluzionaria. Anzi, successivamente, resisi conto che l’obiettivo era rimandato nel tempo, sbandierato solo nella propaganda domenicale, rinunciarono alla proclamazione di quello stesso fine. Non più riforma socialista del sistema, ma riforma all’interno del capitalismo stesso, non più messo in discussione ma considerato come elemento da “mungere” per ottenere riforme sociali, politiche ed economiche per le classi subalterne, profittando degli anni del boom e del benessere e potendo contare su una forza del movimento operaio consistente e strutturata.

 

Tale politica ottenne importanti conquiste parziali ma pur sempre all’interno di un processo che tendeva a riequilibrare il sistema, renderlo più stabile, meno conflittuale e, sostanzialmente non superabile. Storicamente poi, non c’è da spettare l’avvento del liberismo economico, tipico dell’attuale capitalismo definito selvaggio e senza regole, per vedere l’adattamento delle socialdemocrazie alle esigenze politiche della forma capitalistica, secondo la fase che esso attraversa. Prima ancora delle mirabolanti conversioni post-novecentesche alla Tony Blair, negli anni Ottanta del secolo scorso e nei decenni successivi, a fronte della crisi del sistema, i socialdemocratici, quando giunsero al governo in paesi come la Francia, la Spagna, la Grecia, non furono in grado di realizzare le riforme sociali, economiche e politiche, per altro sempre più moderate, anzi finirono coll’adottare pratiche e orientamenti del tutto simili a quelli dei governi conservatori, imponendo misure di austerità e rimangiandosi le stesse riforme che averno introdotto a favore delle classi lavoratrici e meno abbienti, compresi i diritti democratici: rafforzamento del potere esecutivo, introduzione di nuove leggi più restrittive riguardo il diritto di sciopero, la tutela del posto di lavoro, il mercato del lavoro, ecc. Quelli più “riformisti” si mossero per addolcire le pillole amare, non certo per cambiare il dottore che le prescriveva.

 

Man mano che venivano meno i margini per un novello compromesso socialdemocratico, modello post seconda guerra mondiale nei paesi a capitalismo avanzato, il riformismo socialdemocratico si adattava al nuovo corso del capitalismo. Oggi, il sistema non solo è in crisi, ma è dominato da un mercato sovranazionale, difficilmente aggredibile sul terreno unicamente nazionale. Stante questo vincolo, la socialdemocrazia odierna cosa ha semplicemente fatto? Ha scelto di stare dalla parte della “ragione” delle banche e del capitalismo, abbandonando velleità di riforme e facendosi sostenitrice entusiasta di controriforme, cioè riforme favorevoli alla classe dominante. I classici paradigmi che magari si conservavano solo più nella propaganda socialdemocratica: occupazione, redistribuzione del reddito, stato sociale, assistenza pubblica, sono stati abbandonati e sostituiti dalla generica rivendicazione dei diritti individuali dei cittadini, disgiunti però da ogni connessione e ragionamento sulla diseguaglianza sociale, di classe, di potere. Da intermediaria delle rivendicazioni della classe subalterna, nei confronti di quella dominante, la socialdemocrazia è diventata agente portatrice delle riforme della borghesia verso chi sta in basso, riportando le condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici indietro di un secolo.

Indebolito e disarticolato il movimento operaio novecentesco, hanno avuto campo libero intellettuali magnificanti il liberismo e il capitalismo rampante, uniti ai ceti politici burocratici che hanno “salvato” la loro posizione sociale e retributiva. A questo punto forse sarebbe il caso di dire che siamo (e forse già oltre?) alla fine di quella che è stata l’esperienza storica socialdemocratica. Solo che questo finale non è paragonabile all’ultimo capitolo di un romanzo. La conclusione in politica e nella società diventa una conseguenza. Lascia sul terreno degli sconfitti non solo nell’ambito delle idee ma anche nella distruzione di forze materiali e di coscienza oppositiva. Certo, la compiuta caduta di stile della socialdemocrazia, la toglie di mezzo come ostacolo politico alla costituzione di nuove organizzazioni anticapitaliste; ma andandosene abbandona dietro di sé cocci e frammenti di movimenti, frantumazione di idee e speranze, dalle quali non è affatto facile ripartire. Inoltre. Come è stato osservato in questo dibattito, data questa condizione, l’addio

della vecchia socialdemocrazia e l’assunzione piena di compiti di direzione di governi borghesi, con conseguenti politiche impopolari, lascia spazio alle destre offrendo loro la possibilità di trovare un seguito di massa.

 

Anche là dove la crisi della socialdemocrazia ha suscitato una reazione di sinistra che ha trovato consensi la situazione non è affatto lineare e semplice. La sinistra possibile è incapace di superare quella divisione, introdotta ad arte dall’ideologia della fine delle ideologie, tra quelli che presenta come testimoni del passato (i partiti storici del movimento operaio) e i testimoni del presente (i nuovi movimenti), mancando la connessione, non si danno i presupposti per un incontro che sappia rileggere criticamente il rapporto tra passato e presente. La situazione italiana è esemplare. Siamo oltre la socialdemocrazia, anzi l’abbiamo surclassata passando direttamente dal Partito comunista al Partito (liberal) democratico modello Renzi e altri prima di lui. Sarà per questo che da noi non abbiamo fenomeni come Podemos o Syriza, bensì Cinquestelle e Beppe Grillo; e neanche si affacciano alla ribalta personaggi come Corbyn del Labour Party e forse Benoît Hamon del partito socialista francese, a meno di volerli vedere impersonati da Cuperlo, Speranza, D’Alema.

La desertificazione sociale e politica, prodotta dalla crisi, unita alla propaganda della fine delle ideologie, dei partiti novecenteschi, socialdemocrazia compresa, produce per reazione sfiducia verso forme politiche organizzate. Movimenti anticapitalisti generosi, come Occupy Wall Street, Indignados, la Nuit debout, No Tav, e tanti altri, esprimono una reazione diffidente verso le discussione di strategia politica, temono rappresentanze e leader, vogliono sperimentare nuove forme di vita comune a partire dalla riappropriazione dello spazio pubblico, attraverso la partecipazione diretta e spontanea, vogliono soddisfare i loro sacrosanti bisogni ritirandosi dai rapporti mercificati dal capitale. Ma è possibile “ uscire” dai rapporti di produzione e dalla società capitalistica che li produce? Costruirsi un “altro” luogo, liberato e indipendente? Criticare un sistema e il suo funzionamento, senza volerlo cambiare o abbatterlo, semplicemente abbandonandolo?

 

Questi sono una parte importante dei temi in discussione nei nuovi movimenti odierni, lontani dalle tradizioni organizzative e politiche del secolo scorso, orfani perché quel passato non c’è più o perché non vogliono riconoscerlo, anche qui adottando la teoria dell’esodo, dell’abbandono, liberandosi così del peso della memoria che può essere un vantaggio purché diventi una riselezione della memoria, una riscoperta del passato e della storia utile alla vita, cioè all’operare nel presente, altrimenti la tabula rasa diventa un elemento di debolezza. E’ una situazione contraddittoria poiché oggi, più ancora o almeno come nel Novecento, il capitalismo è un disastro sociale ed ecologico che governa il mondo: produce troppa ricchezza, ma non risolve le diseguaglianze sociali, produce una quantità enorme di beni, ma non abbatte povertà, anzi crea marginalità e vite precarie. Perché allora, date tutte queste condizioni, non si è ancora cambiato sistema? E’ una domanda importante da cui partire per trovare risposte e progetti politici che pongano nuovamente al centro il tema dell’anticapitalismo e del suo orientamento socialista, non socialdemocratico, sia chiaro.

image_pdf

Lascia un commento