“Il manifesto” sta celebrando il centenario della rivoluzione russa con una simpatica e – finora – sostanzialmente corretta ricostruzione delle giornate di gennaio-febbraio curata da un ipotetico “corrispondente da Pietrogrado” che firma Leone Levy. Uno pseudonimo scelto non a caso, che fa subito venire in mente un altro Leone, Trotskij, dalla cui straordinaria e insuperata Storia della rivoluzione russa sono in alcuni casi riprese e quasi parafrasate le “cronache” di quei giorni. Forse sarebbe stato più utile riprendere direttamente qualche pagina di quel libro (per farla conoscere ai tanti lettori del Manifesto che per molti decenni l’hanno ignorato, a volte deliberatamente, per antichi pregiudizi), ma in ogni caso l’iniziativa va elogiata.
Tanto più che il primo di questi supplementi, uscito il 15 febbraio, aveva l’ultima pagina dedicata a una buona ricostruzione di Antonio Conti della rivoluzione del 1905, spesso dimenticata e che invece fu la premessa delle due rivoluzioni del 1917, e di cui l’autore giustamente dice in conclusione che “nella storia del movimento operaio non ci fu altra sconfitta tale da avvicinare così tanto alla vittoria finale”.
Il famoso manifesto di Il’ja P. Makarychev (1901-1928) con la frase di Lenin “Ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo stato”
Mi pareva un buon inizio. Più retorica e approssimativa la pagina che conclude il supplemento uscito oggi, e che è dedicata giustamente al ruolo delle donne nella rivoluzione russa. Nell’articolo, firmato Luisa Cavaliere, c’è una parte notevole di testimonianza autobiografica su quando “al tramonto degli anni ’60” si era iscritta al PCI, scoprendo che “il nodo della valutazione di quella esperienza rivoluzionaria giaceva irrisolto”, salvo trovare un riferimento nei “coraggiosi dissensi berlingueriani” (sic!?). Luisa Cavaliere descrive anche la permanenza del culto di Stalin, espressa sui “muri di non poche sezioni” con l’immagine del leader supremo, “collocato nelle necessità ineluttabili della storia e assolto perfino dalla colpa del patto con Hitler”. Era comprensibile che quella presenza nostalgica ci fosse e sia rimasta per anni, data la reticenza nel ridiscutere l’esperienza sovietica anche da parte del suo punto di riferimento, Enrico Berlinguer.
Ma quando si arriva a parlare effettivamente del ruolo della donna nella rivoluzione russa, la Cavaliere rivela l’ignoranza di tutta una generazione di militanti del “manifesto”: invece di esaltare il ruolo di protagoniste di migliaia di operaie russe, si concentra su tre figure di militanti intellettuali di grande valore ma che comunque non potevano pesare direttamente sulla prima fase della rivoluzione, perché lontane, in esilio. E poi si attribuisce loro anche quello che era il prodotto di un’intera società in movimento: non solo e non tanto l’introduzione del divorzio quanto l’assoluto rifiuto dell’intervento dello Stato nelle scelte delle donne e delle coppie: invece di un matrimonio civile più o meno vincolante, una semplice comunicazione per motivi logistici, abitativi, ecc.
Erano anni di libertà assoluta, c’erano perfino naturisti che eliminavano gli abiti anche nella vita cittadina, senza che nessuno si occupasse di loro. Non sarebbe male ricordarlo, data l’abitudine di attribuire al perfido Lenin ogni male passato, presente e futuro, stravolgendone le posizioni reali.
Con una certa approssimazione e superficialità Luisa Cavaliere allude a discussioni con Lenin, che ci furono in realtà soprattutto tra lui e la Kollontaj, che era fautrice e teorizzatrice della libertà assoluta nei rapporti tra i due sessi, che Lenin non condivideva ma su cui si guardava bene dall’intervenire per imporre la sua opinione, analogamente a quel che faceva di fronte ad artisti figurativi o scrittori (compreso Majakovskij, vedi Burocrazia che viene da lontano) che non apprezzava ma di cui non si sognava minimamente di limitare la libertà di espressione.
D’altra parte del tutto gratuitamente a Lenin si attribuisce “un accento significativo di persistente paternalismo” interpretando il suo impegno per rendere accessibile la politica dello Stato sovietico perfino a una sguattera, cioè a una delle lavoratrici più emarginate e tagliate fuori dalle decisioni, dicendo che egli “voleva insegnare alle cuoche a dirigere lo Stato”…
Solo un pregiudizio verso Lenin può reinterpretare quella proposta in chiave di paternalismo. E solo l’ignoranza o una colpevole reticenza può descrivere l’involuzione della società sovietica già durante la prima fase del potere staliniano usando questa descrizione lirica ma largamente incomprensibile: “Inessa Armand, Aleksandra Kollontai, Nadežda Krupskaija […] indicarono una strada che in pochi anni diventò piena di sterpaglie, un invisibile sentiero. Un sentiero che solo rarissime esploratrici hanno poi percorso quando all’ordine del giorno della storia e del femminismo sono riemerse le urgenze teoriche e pratiche che quelle donne avevano affrontato”.
Ma va detto che poi la Cavaliere conclude ammettendo che “di questo oblio colpevole, forse dovuto anche al timore di impantanarsi nelle questioni del tramonto dell’esperienza bolscevica e della sua «degenerazione» stalinista, bisognerebbe parlare.”
Sì, bisognerebbe parlare senza timore di impantanarsi, e cominciando a eliminare le virgolette alla parola «degenerazione», e rinunciando alla censura nei confronti di Trotskij, che a fianco di Lenin, non meno delle tre donne scelte come icone dalla Cavaliere, cominciò una battaglia contro l’involuzione burocratica, sia negli articoli della preziosa raccolta di scritti sul costume e le eredità del passato (che è disponibile sul mio sito col titolo di Rivoluzione e vita quotidiana), sia in molte pagine illuminanti de “La rivoluzione tradita” sulla condizione delle donne e dei giovani nello Stato sovietico.
Ma probabilmente sono stato troppo severo: qualche anno fa ai redattori del “manifesto” non sarebbe venuto neanche in mente di parlare di Lenin e della rivoluzione russa (anzi ci tenevano a precisare che la loro rivoluzione era “non russa”). E allora, senza polemica, auguriamoci che questo sia solo un inizio, e che le inesattezze (ce ne sono anche altre, che non ho voluto sottolineare) siano solo la conseguenza pressoché inevitabile del ritorno su sentieri abbandonati da tempo e che sono poco visibili, per le molte “sterpaglie” che li hanno invasi…
(tratto da: rivoluzione1917.org, 12 marzo 2017)
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