Scrittori, se i morti sono più vivi dei vivi di Goffredo Fofi

 

Questo articolo è uscito il 3 marzo 2017 su “Avvenire”    (apparso anche sul sito de gli asini).

Lo storico e benemerito Gabinetto Vieusseux di Firenze, molto importante in una città piuttosto passiva dopo essere stata in passato una vivacissima “capitale della cultura”, organizza per le prossime settimane una serie di incontri con scrittori di oggi che parleranno di scrittori di ieri: diciamo pure di scrittori in piena attività che diranno la loro su scrittori che non ci sono più. L’abbinamento dei nomi dipende ovviamente dalle scelte dei vivi, sulle quali i morti non possono intervenire, e in taluni casi (pochi) incuriosisce e intriga. Perché? Perché – senza far nomi, per non offendere nessuno – si avverte nelle opere di alcuni di questi vivi una tensione positiva, non solo narcisistica. Ma resta tuttavia impressionante il dislivello tra le figure dei morti (le loro opere, la loro statura di artisti, ma anche la loro statura civile e morale) e quelle dei vivi: al punto che si potrebbe anche dire per alcuni dei vivi che i morti sono molto più vivi di loro. Torna alla mente la drastica distinzione di Elsa Morante tra “scrittori” e “scriventi” di fronte a certe opere di scrittori di successo (ma anche di insuccesso) suoi contemporanei, perché anche lei è tra i morti onorati dall’iniziativa fiorentina. Orbene, si ha l’impressione che i morti considerati dall’iniziativa siano stati più o meno tutti dei veri “scrittori” e che i vivi siano quasi tutti degli “scriventi”, che insomma, pur con tutta la loro convinzione e il loro entusiasmo, gli scrittori di oggi siano piuttosto degli scriventi che degli scrittori, tanto grande appare il dislivello tra le opere dei primi e dei secondi. E ci si chiede perché, ci si interroga sui motivi storici della decadenza della nostra cultura rispetto a quella di trenta, quaranta, cinquant’anni fa. Personalmente mi do alcune spiegazioni, che so provvisorie e approssimate. La prima è di natura storica. La grande letteratura italiana (il “romanzo italiano”) è davvero fiorita con un gran numero di autori di grande o media statura, dopo tanti casi isolati e alcuni momenti di vitalità generale, soltanto quando l’Italia risorgeva dopo la seconda guerra mondiale, e s’interrogava, sperava, proponeva, lottava. La seconda è la grande mutazione economica mondiale e di conseguenza sociale e politica anche italiana, esplosa con gli anni Ottanta, la finanza, il digitale, la globalizzazione: crisi dei modi di produzione tradizionali e dunque “precariato giovanile”, mentre aumentava il numero dei frequentatori dell’università e la cultura e le arti diventavano una valvola di sfogo per una generazione altrimenti disoccupata. La terza è la funzione che questo nuovo sistema di potere attribuisce alla cultura, mito e valvola di sfogo, ma anche circolazione di denaro. E soprattutto manipolazione delle coscienze. La quarta è la diffusione abnorme di uno pseudo individualismo e protagonismo giovanile mentre in realtà gli individui non sono mai stati così massificati come oggi, e contano sempre di meno nei processi storici, influiscono sempre meno sulla gestione del potere, in mano a pochissimi. Dunque, tantissimi recitano disegnano filmano e scrivono, come in un venefico acquario privo di ossigeno, e di confronto attivo con la storia, e dunque col pensiero, e dunque con una ispirazione non truccata, non superficiale. Ma ci sono certamente anche altre spiegazioni al fatto che i morti, nelle nostre lettere, siano molto più vivi dei vivi. Sarebbe utile che i vivi ne discutessero, per diventare un po’ più vivi come scrittori: quelli che ne avrebbero le capacità, e sono molti.

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