Il carattere demagogico della campagna elettorale di Donald Trump ha scandalizzato la stampa americana ed europea. Ma l’accusa di populismo è un alibi tendente a mascherare la crisi sociale e politica dei regimi democratici. (tratto da Egualianza & Libertà, Domenica, 5. Febbraio 2017)
- Forse il 2016 sarà ricordato come l’anno in cui ha trionfato il populismo su entrambe le sponde dell’Atlantico, negli Stati Uniti, con l’elezione di Donald Trump e in Gran Bretagna con la Brexit. E il 2017 potrebbe essere l’anno in cui, varcando la Manica, il populismo approderà sulle coste del continente, approfittando dei prossimi appuntamenti elettorali nei Paesi Bassi, in Francia, Germania e, probabilmente, in Italia. Il populismo è sempre più utilizzato come una chiave universale per interpretare la crisi delle democrazie occidentali. Non a caso, la vittoria di Donald Trump in America e la Brexit sono spiegate come una deriva populista dei rispettivi regimi democratici. La stessa chiave è utilizzata per spiegare l’avanzata del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, di Podemos in Spagna o del Movimento Cinque Stelle in Italia. In realtà, l’alibi del populismo maschera problemi più profondi che riguardano aspetti della crisi che attraversa le democrazie occidentali. Rivediamo brevemente il sorprendente successo di Trump.
Il discorso d’insediamento di Donald Trump può essere considerato una sintesi del suo approccio demagogico ai problemi degli Stati Uniti e del mondo. Il tono non è stato diverso da quello utilizzato durante la campagna elettorale. Più che rivolgersi al Congresso, il suo discorso era indirizzato a quelli che considera normali cittadini americani.”Washington – ha detto – è rifiorita, ma la gente non ha condiviso la sua ricchezza”. Una dichiarazione che, in effetti, avrebbe potuto fare qualsiasi nuovo presidente, repubblicano o democratico, senza suscitare sorpresa. Ma il nuovo presidente non si è fermato alla prima dichiarazione. “I politici prosperarono – ha enfatizzato – ma i posti di lavoro si riducono e le fabbriche chiudono. I membri dell’establishment sono protetti, ma non i cittadini del nostro paese … I loro trionfi non sono stati i tuoi trionfi, e mentre si celebrava nella capitale della nostra nazione, c’era poco da festeggiare per le famiglie alle prese con le difficoltà di tutti i giorni”.
- Il discorso ha avuto un tono inusuale e irritante. Ma dietro l’aspetto iconoclasta, vi sono innegabili dati di fatto che non suscitano scandalo quando provengono dai circoli accademici e dai media. Nell’ultimo decennio non si contano i libri e gli articoli dei principali commentatori politici americani che descrivono l’estrema polarizzazione della ricchezza. L’1 per cento della popolazione americana che era già ricco ha visto una crescita enorme della ricchezza a seguito della crisi. William Lazonick, professore di economia di Massachusetts Lowell, fornisce un’illustrazione eloquente degli squilibri richiamati da Trump, quando, con riferimento al decennio che precede e segue la crisi del 2008, scrive che, fra il 2003 e il 2012, 449 imprese sulle 500 della lista S&P 500 “hanno utilizzato il 54 per cento dei loro profitti – in totale 2,4 trilioni di dollari – per riacquistare le loro azioni…(mentre) i dividendi assorbivano un altro 37 per cento dei profitti, riservando ben poco agli investimenti produttivi e al miglioramento dei redditi da lavoro”. E, secondo il Roosevelt Institute, “il sistema finanziario non è più uno strumento per iniettare risorse nel sistema produttivo, ma è diventato uno strumento per estrarne risorse…Il settore è oggi nell’insieme portato ad aumentare le rendite destinate a dispensare bonus ai capi delle imprese piuttosto che accrescere i profitti derivanti dalla crescita. (1)Che la classe dirigente e la grande stampa trovino inappropriato e scandaloso lo stile del nuovo presidente nel rivolgersi al Congresso, sotto gli occhi del popolo americano, è comprensibile. Ma l’esasperazione degli squilibri riflette dati di fatto, che Trump ha enfatizzato ricorrendo a un uso spregiudicato di tutti gli arnesi della demagogia, ma fondati su una base indiscutibilmente reale. Il discorso sugli effetti distorsivi della globalizzazione non è nuovo, e non è un’invenzione dell’esuberante demagogia di Trump. Venti anni or son, Dani Rodrik, professore di Economia Politica Internazionale a Harvard, già ammoniva con un importante saggio intitolato “Has Globalization Gone Too Far?” (La globalizzazione si è spinta troppo avanti?), circa i rischi di disgregazione sociale comportati dalla globalizzazione. Un saggio decisamente in contrasto con il culto della globalizzazione degli esuberanti anni Novanta. Oggi sono molti i libri e gli articoli sugli effetti sociali negativi della globalizzazione, e Joseph Stiglitz ne ha illustrati gli effetti più dirompenti in “Bancarotta. L’economia globale in caduta libera”. La novità non è nel rilievo dato alle conseguenze sociali della globalizzazione, ma piuttosto nel fatto che questa volta la denuncia proviene dal più alto pulpito della chiesa del capitalismo globale.
Alla denuncia, Trump ha fatto seguire un impegno ripetutamente annunciato nel corso della campagna elettorale. “Riporteremo a casa il nostro lavoro (“We will bring back our jobs”)…. Costruiremo nuove strade e autostrade, ponti, aeroporti, gallerie e ferrovie nel nostro meraviglioso paese”. In realtà, una promessa non nuova nei discorsi d’insediamento dei presidenti, ma sempre disattesa. Del tutto nuovo, invece, il forte accento protezionistico, “Compra americano e assumi americani” (“Buy American and Hire American”) – un attacco nemmeno velato al mantra della globalizzazione che ha dominato la politica americana a partire dalla presidenza di Bill Clinton nei primi anni Novanta. - Un discorso certamente sorprendente, se si considera che a Davos, dove si celebra ogni anno l’incontro tra i maggiori uomini d’affari e politici di tutto il mondo, qualche giorno prima il presidente cinese Xi Jinping aveva fatto un elogio sperticato della globalizzazione. La Cina si candida ad assumere la leadership della globalizzazione, sostituendosi agli Stati Uniti che con Trump improvvisamente aprono al vecchio e screditato protezionismo? In effetti, iI discorso di Xi, interpretato come una sperticata apologia della globalizzazione, conteneva, sia pure meno appariscenti, riserve, precisazioni e clausole restrittive importanti. Come dire che lo stesso discorso fatto da un uomo di governo occidentale sarebbe stato biasimato per l’inclinazione verso obsolete tendenze protezionistiche.
In un commento sul Financial Times il politologo Eric Li dell’Università di Shanghai, mette in luce alcuni aspetti significativi dell’intervento di Xi. “Nel suo discorso – scrive – il signor Xi ha affermato l’impegno della Cina a preservare e promuovere la globalizzazione economica. Ma ha avanzato alcuni punti che potevano apparire inusuali al suo pubblico. Ha detto che bisogna creare i necessari adattamenti e amministrare attivamente la globalizzazione economica in modo da disinnescare i suoi effetti negativi (corsivo mio). Dobbiamo impegnarci verso l’apertura (dei mercati) – ha specificato – ma l’apertura può essere utile a tutti solo se tollera le differenze…La Cina ha tratto grandi benefici dalla globalizzazione…Ma Pechino ha sempre insistito sul suo diritto a determinare il corso del proprio sviluppo nazionale”. (2)La stampa internazionale ha contrapposto la posizione del presidente cinese a quella di Trump, enfatizzando la prima come un elogio incondizionato della globalizzazione, e la seconda come un arcaico e temerario ritorno al protezionismo. In realtà, nessuna delle due categorie teoriche è mai esistita come una regola assoluta. Il comportamento effettivo di ogni paese è sempre stato condizionato, più o meno direttamente, da quelli che considerava i suoi interessi fondamentali. La novità è che la posizione Trump riapre al più alto livello politico una questione che era stata considerata chiusa una volta per tutte dal punto di vista dell’establishment americano. In ogni caso, una questione che non può essere liquidata come “populismo”.E’ indubbio che l’autoregolazione dei mercati come fondamento e corollario della globalizzazione abbia comportato benefici in direzione dello sviluppo di alcuni paesi e la Cina ne è sicuramente tra i massimi beneficiari, come il suo presidente riconosce, ma ha anche comportato enormi conseguenze negative sul piano sociale nel mondo industrializzato, come nella parte più fragile dei paesi in via di sviluppo. L’esplosione delle diseguaglianze in America, che della globalizzazione ha la leadership, è un dato di fatto. Gli Stati Uniti hanno superato la crisi del 2008, ma le classi lavoratrici e una parte importante dei ceti medi non ne hanno tratto beneficio. Le diseguaglianze sono cresciute non ostante la ripresa dell’economia dopo la crisi; i salari reali sono fermi al livello di trent’anni fa. I sindacati sono ridotti a rappresentare il 7 per cento dei lavoratori del settore privato, mentre la contrattazione collettiva è sempre di più il ricordo sfocato di un’epoca lontana.
Bisogna chiedersi se i benefici tratti dalla Cina, che ha visto ridurre la povertà per 600 milioni di cinesi, è il frutto della globalizzazione o, piuttosto, come di passaggio rivendicava Xi Jinping, della capacità dello Stato cinese di orientare e controllare i fondamenti dell’economia nazionale non contro, bensì utilizzando la globalizzazione dei mercati come quadro di riferimento. In altri termini, come un’opportunità per lo sviluppo, non come la sublimazione della sovranità dei mercati a livello globale. Ridurre la novità Trump al trionfo del populismo rischia di essere fuorviante. Non si è trattato della chiamata a raccolta dei diseredati con promesse puramente demagogiche. Sulla base dell’analisi del voto, Danny Quah e Kishore Mahbubani hanno rilevato che Trump ha conquistato il 53% dell’elettorato maschile bianco con una laurea, mentre la maggioranza degli americani con un reddito inferiore a 50.000 dollari ha votato per Hillary Clinton. All’apparenza, una contraddizione: la parte della popolazione maggiormente colpita dalla diseguaglianza ha sostanzialmente votato a difesa della continuità. “ I poveri – scrivono i due politologi – sono stati più favorevoli a Clinton e i ricchi a Trump”, mostrando che, oltre ai dati materiali della diseguaglianza, gioca tra i lavoratori e nei ceti medi “un diffuso sentimento di frustrazione per la perdita di controllo del proprio destino”.(3)
- Vi sono molte ragioni per diffidare della “rivoluzione” di Trump sul piano della politica estera come della politica interna. Due esempi sono indicativi. Sul piano della politica estera adotta una comprensibile apertura al dialogo con Vladimir Putin nel tentativo di uscire dal ginepraio mediorientale; ma, al tempo stesso, annuncia un vergognoso appoggio alla politica dei falchi israeliani di Netanyahu, rovesciando la consolidata politica americana, solennemente confermata per la prima volta all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, della dottrina dei “due Stati”, col pieno riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente. Sul piano della politica interna, adotta la decisione insensata a beneficio dell’estrema destra razzista, del blocco dell’immigrazione da sette paesi a maggioranza musulmana, laddove una misura normale sarebbe stata, se ritenuta necessaria, l’intensificazione dei controlli alla frontiera che, peraltro, sono già largamente operanti negli aeroporti americani. La sconfitta del Partito democratico e la vittoria di Trump non possono, tuttavia, essere attribuite a un’improvvisa febbre populista. Certo, non saremmo alle prese col groviglio della politica di Trump, se il gruppo dirigente del Partito democratico non si fosse schierato contro la possibilità di vittoria di Bernie Sanders, sostenuto da un ampio schieramento delle classi lavoratrici, di giovani e di potenziali elettori indipendenti. Si è, invece, scelto di puntare sulla debole e sostanzialmente conservatrice candidatura di Hillary Clinton, riciclata rispetto alla sconfitta del 2008 nel confronto con Obama.
Al netto, di tutte le contraddizioni, rimane che la piattaforma di Trump ha un valore simbolico forte di contestazione di un modello economico basato, in nome della globalizzazione, sulla sovranità dei mercati e il progressivo ritiro dello Stato dal controllo dei processi economici e sociali. E’ possibile – scrive Michael Spence, premio Nobel per l’economia – che (Trump) cerchi di cambiare una cultura d’impresa e di investimenti che esalta gli interessi del capitale, delle imprese e degli azionisti, considerando sacrificabile il lavoro…Nei prossimi mesi, potremo giudicare … se gli sforzi di Trump per combattere la delocalizzazione e stimolare la crescita e l’occupazione potranno avere un impatto a lungo termine e se prevalga il protezionismo” (4).
5. Una parte dell’elettorato delle aree industriali oggi in declino ha visto, a torto o a ragione, nella linea di Trump un pezzo importante delle politiche tipiche della sinistra. Il punto è che le sinistre di governo come le conosciamo in America e in Europa hanno da troppo tempo mandato in soffitta questa linea politica, considerandola un residuo d’interventismo statalista novecentesco.
Può essere che le promesse elettorali di Trump si rivelino il frutto di un surplus di demagogia, deludendo gli elettori che nella speranza del cambiamento sono corsi a votarlo. Tutto questo si vedrà. Intanto, Trump ha aperto un nuovo capitolo nel dibattito politico sulla globalizzazione e sul ruolo dello Stato, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto l’occidente. Non è un caso che nei partiti di destra dell’Unione europea, così come nell’opinione e nei movimenti orientati a sinistra, si guardi alla svolta di Trump con curiosità e interesse. L’esperienza europea, e in modo specifico quello dell’eurozona, rappresenta, infatti, un esempio forzato di globalizzazione su scala continentale.
Un modello che si è dimostrato economicamente perdente e, dal punto di vista della democrazia, deleterio. Non ci sarebbe da sorprendersi se le imminenti scadenze elettorali nell’Unione europea, iniziando con l’Olanda e la Francia in primavera, e continuando con la Germania e, eventualmente, l’Italia in autunno, dovessero riservarci sorprese e imprevisti. Alcuni imprevisti, come la vittoria di Trump e la Brexit, sono, infatti, più che frutto dell’imprevedibilità, la testimonianza di una percezione distorta delle reali sfide sociali e politiche che agitano le democrazie occidentali nell’epoca della globalizzazione.
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1. Linette Lopez “American companies have developed a very particular disease — and CEOs hate the cure – Jun. 14, 2016 http://uk.businessinsider.com/american-companies-and-short-termism-2016-…)
2. Eric Li, ”Xi Jinping’s guide to the Chinese way of globalization” – FT 19/1/201
- Danny Quah e Kishore Mahbubani, “The Geopolitics of Populism “https://www.project-syndicate.org/commentary/populism-driven-by-geopolitical-change-by-danny-quah-and-kishore-mahbubani-2016-12
- Michael Spence, “Four Certainties About Populist Economics” – https://www.project-syndicate.org/commentary/trump-economic-policy-and-i…
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