Socialdemocrazia addio di Rino Genovese

Il teorema è semplice: finché c’è sviluppo e si dà un surplus da ridistribuire, la formula socialdemocratica può funzionare; quando la crescita rallenta o addirittura un’economia entra in recessione, addio socialdemocrazia. Lo abbiamo visto e lo stiamo vedendo in questi giorni in Brasile. Con Lula, e in parte con Dilma Rousseff, le classiche politiche di ridistribuzione del reddito hanno dato risultati notevoli: parliamo di una ventina di milioni di persone uscite dalla povertà, dell’affermarsi di una “classe media” di nuovi consumatori, dell’estensione dei diritti sociali… Segue però la crisi attuale, la mezza catastrofe anche politica che il Brasile sta vivendo.
In Europa, come si sa, per un insieme di fattori, le politiche sociali non esistono praticamente più da decenni. Ovunque restrizione dei diritti, controriforme del mercato del lavoro, e così via. Il neoliberismo spadroneggia, si tenta al massimo di dargli un volto un po’ umano. Le spinte regressive sono fortissime, di estrema destra localistica, nazionalistica, parafascista, soprattutto riguardo alla questione dei migranti, che da parte loro seguitano a vedere nell’Europa un Eldorado.
Il vecchio socialismo europeo che cosa fa? Si direbbe che abbia gettato la spugna da tempo. In Germania governa splendidamente con i conservatori; in Francia delude qualsiasi aspettativa e precipita ai livelli più bassi nei sondaggi; in Spagna non riesce ad accordarsi con una nuova sinistra e conduce il paese verso le elezioni anticipate; in Grecia è già sparito a favore di una coalizione di gruppi di sinistra guidata da un leader più o meno carismatico; in Italia, incalzata da populismi diversi, una sinistra di stampo socialdemocratico resta in parte nel partito maggioritario diretto da un piccolo politicante democristiano berlusconizzato, in parte cerca di dare vita a un raggruppamento del cinque per cento a livello elettorale. Tramontata da anni l’esperienza pilota dei paesi nordici, soltanto in Portogallo, con un governo di minoranza sostenuto da comunisti, ecologisti e sinistra radicale, il partito socialista è al governo nella prospettiva di un superamento dell’austerità europea.
Ecco il punto: se non si risolve a dare battaglia e a costruire, insieme con altre forze, un fronte di lotta contro l’austerità il socialismo europeo non potrà ritornare protagonista. Personalmente, non smetto di nutrire la speranza di un risveglio e di una ripresa. Ma bisogna distinguere tra la socialdemocrazia, che appartiene al passato, e il socialismo che è un concetto più ampio e riguarda il futuro. Al di là della ridistribuzione del reddito (che pure non è poca cosa) c’è una ridistribuzione del potere da mettere a tema. Anzitutto, le politiche sociali oggi possono essere poste in essere solo a partire da un livello sovranazionale, quello di un’integrazione europea che abbia come obiettivo gli Stati Uniti d’Europa, per intenderci; in secondo luogo, questo processo federativo deve avvenire non soltanto mettendo in questione i vecchi Stati nazionali (che pure sono stati la fonte delle trascorse politiche sociali) ma le stesse priorità imposte dal capitalismo, superando la prevalenza dei consumi privati su quelli collettivi, per esempio, e indirizzando gli investimenti pubblici, e le stesse risorse private, verso una riconversione del modello di sviluppo in chiave ecologica; in terzo luogo, tutto questo dovrebbe comportare una democratizzazione dal basso che metta fine, nel senso della democrazia rappresentativa, al predominio delle élites tecnocratiche europee e, nella chiave della democrazia diretta, ponga in agenda la fine della dittatura del management nelle aziende.
Mica uno scherzo, si dirà. Lo so, i tre punti di questo programma hanno il sapore dell’utopia. Ma per che cosa è nato il socialismo, quasi un paio di secoli fa, se non per tentare di rendere concreta l’utopia?

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