Della socialdemocrazia oggi non resta che il nome, il cui uso consente ancora ai proprietari di un marchio così prestigioso di arrivare al potere; la sua fragilità consiste nel fatto che non offre niente di più di quello che offrono gli altri».
Solita bordata antisocialdemocratica di qualche esponente della sinistra “minoritaria”? No, voce che viene dal seno stesso della socialdemocrazia. Si tratta del sociologo Ignacio Sotelo, militante del Partido Socialista Obrero Español, vicino alla sua ala sinistra (in Agotamiento de la socialdemocracia, El País, 8 de junio 2003). Diagnosi che, 13 anni dopo, va però aggiornata: oggi il «marchio» non garantisce più nemmeno il successo elettorale, come in Spagna dimostra lo stesso PSOE, arrivato a poco più del 20 % dei voti dopo aver toccato, anni fa, oltre il 40 %, e sprofondato in quest’ultimo anno in una crisi talmente grave da metterne in discussione la stessa unità. E come dimostrano, un po’ in tutta Europa, le vicende dei vari partiti socialdemocratici, che vanno collezionando sconfitte in serie (Grecia, Austria, Germania, Francia eccetera). E in Italia?
In Italia, a dire il vero, la tappa socialdemocratica “classica” l’abbiamo saltata. Non è stato certo un partito socialdemocratico “classico” il PSDI saragattiano (mera stampella clientelare del potere dc), né a rigore lo è stato il PSI, nelle versioni nenniana e craxiana. E nemmeno lo è l’attuale PD, che socialdemocratico non si è mai definito: ha assunto la socialdemocrazia come uno dei suoi “ingredienti“, assieme ad altri, e ha frullato il tutto sino a ricavare un cocktail definito “progressista” e di “centrosinistra”. Insomma, ha “superato” la socialdemocrazia, tant’è che non fa parte dell’Internazionale socialista, ma, ogni tanto, compare ai raduni internazionali della Alleanza progressista, un vasto club dove si può trovare di tutto e il contrario di tutto. L’etichetta di progressista non si nega infatti a nessuno.
Dunque, per noi, in Italia, discutere della vitalità o meno della proposta socialdemocratica sembrerebbe quantomeno curioso. A meno che dietro non vi sia un interrogativo sottinteso, e cioè: qual’è l’identità (e dunque anche l’etichetta) che può assumere un auspicabile nuovo partito di sinistra?
Problema forse un po’ nominalistico, ma che a sua volta ne sottintende un’altro, serio, sui contenuti: la capacità, che ancora non c’è, di rimettere insieme in un tutto coerente una serie di elaborazioni settoriali che sono state fatte nel corso degli ultimi decenni.
Mi spiego meglio. Fino agli anni Sessanta, in Italia, termini come comunismo, socialismo, socialdemocrazia indicavano scelte di fondo sufficientemente chiare: esagerando un po’, diverse “concezioni del mondo”. C’erano poi, diciamo così, delle sottocategorie (per esempio, comunismo o marxismo rivoluzionario per i comunisti antistalinisti o socialismo di sinistra per le tendenze socialiste non riformiste) che rendevano più variegato e completo il quadro.
Oggi ricorrere a questi termini risulta alquanto difficile perché non solo si sono logorati, ma spesso si sono svuotati di contenuto. La controprova? Le correnti, i gruppi, le organizzazioni che hanno voluto (o cercato di) recuperare il meglio, ciò che è vivo, della storia del movimento operaio hanno dovuto aggiungere alle proprie denominazioni delle specificazioni che un tempo (il tempo delle “concezioni del mondo”) sarebbero apparse superflue: per esempio, “femminista”, “ecologista” o “ecosocialista”, “libertario”, “anticapitalista” eccetera. Segno evidente della difficoltà, che ancora permane, di arrivare a una coerente sintesi, a una nuova “concezione del mondo” di cui farsi portatori. E non sarà facile arrivarvi, perché in molti casi l’impegno settoriale può far perdere di vista l’insieme. Un esempio recente? Qualche mese fa nelle primarie del Labour inglese il movimento “progressista” LGBT non ha appoggiato il socialista Corbyn ma una deputata che si richiama ancora al blairismo ma che però è lesbica…
Aneddoto a parte, e per tornare in tema, ha senso riproporre oggi il «marchio», per dirla con Sotelo, della socialdemocrazia? Ovvero, che contenuto ha oggi questo «marchio»?
Non ha più naturalmente quello delle lontane origini (società socialista da raggiungere attraverso graduali riforme), ma non ha più nemmeno quello dell’“età d’oro” del secondo dopoguerra (redistribuzione parziale della ricchezza a favore delle classi lavoratrici e intermedie e Welfare State). Sono contenuti ormai improponibili perché la crisi e la globalizzazione hanno profondamente modificato l’“ambiente” (Stati nazionali con relativi capitalismi nazionali) in cui poteva prosperare il compromesso socialdemocrazia-capitalismo. La forza relativa della socialdemocrazia consisteva infatti nel poter arrivare a un do ut des con il proprio capitalismo domestico, a concessioni reciproche e soddisfacenti per entrambi. Oggi gran parte del capitalismo “domestico” è tornato allo stato brado, è diventato un selvaggio capitalismo internazionale, al quale nessuna socialdemocrazia nazionale è in grado di contrapporsi. Non ci sono più i margini per il vecchio compromesso, e qui rimando al testo introduttivo di Genovese per non ripetere cose già dette.
Del resto, è all’interno della stessa socialdemocrazia che progressivamente si è preso atto della situazione. Nell’impossibilità di riprodurre il compromesso con il capitalismo nazionale, le possibilità erano solo due: attrezzarsi per uno scontro con il capitalismo, sia pure in un’ottica ancora riformista, o cercare di mantenere il rapporto con il capitalismo, adottando un’ottica controriformista. Sono i sostenitori di questa seconda opzione che hanno colto per primi la nuova situazione e per primi si sono mossi. Mi riferisco qui, com’è ovvio, a quell’incantatore di serpenti che è stato Tony Blair, con la sua “terza via”, in realtà un vicolo cieco che riportava il movimento operaio e socialista indietro di un secolo sul piano economico e sociale, ma che pure ha sedotto fior di intellettuali e, soprattutto, gran parte del ceto politico socialdemocratico preoccupato per il proprio personale avvenire. Nella sua fumosità, nella sua vaghezza, ma con l’apparenza della modernità, la “terza via” è stata fatta propria, esplicitamente o implicitamente, da gran parte del personale politico socialdemocratico (e anche postcomunista): che di meglio di questa elegante foglia di fico per mascherare e far digerire svendite di un ingente patrimonio storico, controriforme nel campo del lavoro e in quello politico, alleanze con i rappresentanti del capitale? Senza preoccuparsi troppo del fatto che la “terza via” rappresentava in realtà la fine dell’esperienza storica socialdemocratica, perché le teorie che la sottintendevano, non frutto del cervello da televenditore di Blair ma di quello di un altro enfant prodige della post-sinistra, Anthony Giddens, erano dinamite per le fondamenta socialdemocratiche. Si ridia un’occhiata a Oltre la destra e la sinistra di Giddens (Il Mulino, Bologna, 1997) se restano dei dubbi. La stella di Blair si è notevolmente appannata in seguito alle rivelazioni sul suo ruolo nella criminale guerra contro l’Iraq, ma il blairismo è un virus che s’è egualmente propagato rapidamente in tutta Europa, facendo scuola.
Quel po’ che restava di sinistra socialdemocratica si è invece mossa in forte ritardo, quando ormai il contagio si era diffuso, il blairismo più o meno mascherato aveva sedotto i tele-elettori e dissentire diventava sempre più difficile, si faceva la figura di gufi attempati contrapposti ad aitanti e seducenti venditori di fumo. Certo, ora c’è Corbyn che (forse) riuscirà a rigenerare il Labour, ma la sinistra socialdemocratica europea, laddove c’è, appare timida, esile e confusa sul da farsi. C’è da sperare che si muova, ma senza farsi troppe illusioni.
In conclusione: non credo che sia possibile una rinascita della socialdemocrazia, perché non ve ne sono più i presupposti materiali, prima ancora che ideali. Certo, è possibile che qua e là si registri ancora qualche successo elettorale di partiti che si dicono socialdemocratici, ma occorrerà verificare il contenuto della bottiglia prima di prendere per buona l’etichetta.
Il tramonto della socialdemocrazia toglie di mezzo un ostacolo al possibile sviluppo di autentici partiti socialisti, è ovvio. Ma, attenzione: contemporaneamente viene tolto di mezzo anche un ostacolo allo sviluppo di partiti di destra o di estrema destra capaci di pescare nelle classi popolari con temi populistici, xenofobi, nazionalisti, anche fascisteggianti. È qualcosa che già sta verificandosi in vari Paesi europei da diversi anni a questa parte.
E qui sta il paradosso. Più la socialdemocrazia residua si ostina ad applicare ricette neoliberiste, come sta facendo da anni, più alimenta il serbatoio dello scontento sociale cui attinge la destra e l’estrema destra. Perché, fatta eccezione per pochi Paesi, la sinistra, sia quella cosiddetta extraparlamentare sia quella formata da correnti e spezzoni che si richiamano al socialismo in rottura con la socialdemocrazia, non sono ancora materialmente in grado (e spesso non sono ancora teoricamente capaci) di dare uno sbocco a sinistra al malessere sociale. È qualcosa che è già avvenuto in passato: una sfasatura profonda fra la capacità della sinistra di porsi come polo di riferimento degli strati sociali impoveriti e inviperiti e il ritmo con cui procede la crisi dei partiti “storici” al potere (socialdemocratici, democristiani eccetera). Di qui l’urgenza, pratica, non teorica, di cominciare a fare qualche passo concreto in direzione di un “qualcosa” che raggruppi le forze sparse. Etichetta a parte, un “qualcosa” in cui metterci «in mancanza di meglio», per scomodare Brecht.
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